Storia della FIM

Abbiamo diviso la cronologia in decenni, premettendo ogni volta alla trattazione degli eventi sindacali una sintesi dello scenario generale, politico, sociale ed economico. Alla fine, il capitolo “Saperne di più” offre indicazioni di lettura per l’approfondimento.
La divisione in decenni è ovviamente una convenzione, che serve solo ad agevolare la memoria. Il tempo – lo sappiamo – scorre incurante delle date. Gli anniversari sono solo occasioni per rammentarci che la storia è in realtà la vita di donne e uomini che hanno lavorato per il nostro presente e il nostro futuro.

ANNI ’50 – SCENARIO

La guerra è finita da pochi anni, la democrazia è ancora fragile. Le forze che hanno retto la lotta di liberazione, dopo aver governato insieme il paese all’insegna dell’unità antifascista, si sono divise: lasciati fuori dal governo già nel 1947, i socialisti e i comunisti uniti nel Fronte popolare subiscono nelle elezioni del 18 aprile 1948 una dura sconfitta e sono sospinti stabilmente all’opposizione. Per oltre un decennio l’Italia sarà governata da coalizioni “centriste”, imperniate sul partito di maggioranza, la Democrazia cristiana, con cui collaborano gli alleati “laici” socialdemocratici, repubblicani e liberali.
È in questo contesto di profonda frattura ideale e politica che matura nell’estate 1948 la fine dell’unità sindacale nella Cgil, fondata con il Patto di Roma nel 1944, e la formazione nel 1950 di Cisl e Uil.
Dopo le elezioni del 1953, che vedono fallire il tentativo di stabilizzare il governo con un premio di maggioranza (la famosa “legge truffa”), questa coalizione andrà sempre più indebolendosi: si apre un periodo di instabilità fino alla crisi dei primi anni Sessanta, quando si aprirà la strada al centro sinistra con l’entrata dei socialisti nell’area di governo.
La ricostruzione del paese avviene all’insegna del libero mercato, i suoi costi pesano soprattutto sulle spalle dei lavoratori, le cui condizioni di vita sono difficili per le basse retribuzioni, il ricatto permanente della disoccupazione, l’assenza di diritti all’interno delle aziende. Sulle loro lotte spesso cala pesante la repressione, operata anche con ampio impiego della polizia. Particolarmente difficile è la situazione nell’industria, che deve riconvertirsi da un’economia di guerra a una “normale”, in grado di reggere sul mercato internazionale.
Il paese è spaccato: da un lato le forze di governo, che beneficiano dell’appoggio degli Stati Uniti, i quali varano un grande piano di aiuti all’Europa (il Piano Marshall); dall’altro le forze di opposizione egemonizzate dal Partito comunista, condizionate dal legame ideologico e politico con l’Unione Sovietica e ostili al piano Marshall.
È il riflesso in Italia dell’aspro conflitto internazionale che vede il mondo spaccato in due: l’Ovest dominato dagli Stati Uniti e l’Est dominato dall’Urss (la “guerra fredda”).
Nel 1956 il mondo comunista è scosso da importanti eventi. Al XX congresso del Partito comunista sovietico Nikita Kruscev denuncia pubblicamente i crimini del precedente regime di Stalin. Ma nello stesso anno lo stile “stalinista” torna a farsi valere, quando un’ondata di ribellioni popolari scuote alcuni paesi dell’Est comunista. Particolarmente grave è la crisi in Ungheria nell’autunno: i carri armati sovietici entrano a Budapest e reprimono nel sangue la rivolta di un paese alla ricerca di indipendenza e libertà. Unanime è la condanna del mondo democratico, ma nella sinistra italiana è uno shock. Il Partito comunista condanna la rivolta come “controrivoluzionaria” e giustifica l’intervento armato, solo alcuni intellettuali dissentono. Anche la Cgil, dopo un breve travaglio interno, si allinea al Pci.
Non così i socialisti, che condannano l’intervento sovietico e cominciano un processo di autonomia dai comunisti.
Negli anni Cinquanta si avvia il processo di integrazione europea: nascono nel 1951 la Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio) e nel 1957, con i trattati di Roma, la Cee (Comunità economica europea) e l’Euratom (Comunità europea dell’energia atomica).

ANNI ’50 – STORIA DELLA FIM

PLURALISMO SINDACALE

Nel 1944 le principali forze politiche antifasciste (comunista, socialista, democristiana) prendono l’iniziativa di dare vita a un sindacato unitario, la Confederazione generale italiana del lavoro (Cgil), con un’intesa passata alla storia come “Patto di Roma” (3 giugno 1944).
Sul sindacato unitario pesa il riferimento ai partiti e con l’approfondirsi della frattura tra le forze politiche, anche per i riflessi della “guerra fredda”, maturano i germi della divisione.
Diventa sempre più evidente l’impossibilità di tenere insieme culture ed esperienze sindacali diverse, di salvaguardare identità e valori in un quadro, quello sindacale, fortemente egemonizzato dalle componenti marxiste e sospinto verso logiche di pura opposizione politica.
Sarà proprio l’uso politico dello sciopero a fare da detonatore per la divisione: in seguito all’attentato al leader comunista Palmiro Togliatti (14 luglio 1948), la maggioranza sindacale socialcomunista decide uno sciopero politico a oltranza in appoggio all’azione del Pci. La corrente cristiana si dissocia; nel congresso delle Acli (settembre 1948) i sindacalisti cattolici decidono di costituire un sindacato autonomo e democratico, che all’inizio si chiamerà Lcgil (Libera Cgil): è una scelta compiuta in nome dell’autonomia dell’azione sindacale da quella politica.
Allo stesso modo le componenti repubblicana e socialdemocratica daranno vita alla Fil (Federazione italiana del lavoro). I tentativi di unione tra queste due formazioni non avranno esito: una parte della Fil confluirà nella Lcgil, che diverrà la Cisl; l’altra parte porterà alla costituzione nel marzo 1950 della Uil. È così consacrata la situazione di pluralismo sindacale tipica del nostro paese.

LA NASCITA DELLA CISL

Roma, 30 aprile 1950: in un’assemblea al teatro Adriano, nasce la Cisl, Confederazione italiana sindacati lavoratori. Suo primo segretario generale è Giulio Pastore.
Come dice la sigla, è una confederazione di sindacati, che garantisce ampia autonomia alle categorie. Qui è un’importante differenza rispetto alla Cgil: mentre questa è più centralista e ha i caratteri di un “sindacato politico”, la Cisl fin da principio privilegia la funzione contrattualista, sul modello del sindacalismo anglosassone, che considera il conflitto sociale e di interessi come fisiologico in una società pluralista e democratica: una visione alternativa a quella marxista della lotta di classe, prevalente nella Cgil, e anche a quella della dottrina sociale cattolica che fa prevalere il “bene comune” sul conflitto. Ciò sarà molto importante per lo sviluppo della Fim.
Due scelte fondamentali sono da sottolineare:
· l’autonomia dai partiti politici e dai governi;
· la scelta laica e pluralista: la Cisl è aperta a tutti, senza distinzioni di credo, ideologia o appartenenza politica, purché aderiscano alla sua impostazione rigorosamente sindacale e alle regole democratiche sancite dallo statuto.
Viene così sconfitta una corrente minoritaria che avrebbe voluto un sindacato dei cattolici. Di fatto, se è prevalente la componente cattolica, trovano e troveranno sempre più motivo di militanza nella Cisl lavoratori e dirigenti laici, socialisti e anche cattolici senza partito.
Nel corso degli anni Cinquanta la Cisl matura le proprie scelte. Ricordiamo due fatti significativi per il futuro:
· nel giugno 1951 sorge la scuola sindacale di Firenze: nella Cisl la formazione riceve un grande impulso, i suoi quadri non nascono nelle scuole di partito ma da un lavoro, da strumenti e da programmi autonomi, culturalmente aperti ai cambiamenti nella società, nell’economia e nel mondo produttivo; i “maestri” di quella scuola saranno reclutati da più sponde ideali e culturali, con spirito “laico” e aperto (ricordiamo tra gli altri i giuristi del lavoro Gino Giugni e Federico Mancini di area socialista);
· nel febbraio 1953 a Ladispoli (Roma), il consiglio generale della Cisl propone le linee della contrattazione articolata. Viene così spezzata la rigidità della contrattazione centralizzata, fino ad allora prevalente e ancora sostenuta dalla Cgil (che però, nel 1955, farà “revisione” e si misurerà con la sfida lanciata dalla Cisl). La contrattazione articolata getta le basi per un grande ruolo delle categorie e per la formazione di rappresentanze sindacali di fabbrica come soggetti di contrattazione.
Sul piano internazionale la Cisl aderisce fin da principio all’organizzazione democratica mondiale dei sindacati liberi, la Cisl internazionale sorta nel 1949. Nel 1957 sarà creato, nel contesto della nascente integrazione europea, un segretariato europeo dei sindacati liberi nell’ambito della Cisl internazionale, che nel 1973 diverrà la Ces, Confederazione europea dei sindacati.
Contrariamente alla Cgil, la Cisl si dichiara fin da principio favorevole al Mercato comune europeo.

LA NASCITA DELLA FIM

30 marzo 1950: a Milano si riuniscono in commissione paritetica i dirigenti di due sindacati democratici dei lavoratori metalmeccanici, Silm (Fil) e Fillm, che concludono un accordo di unificazione per costituire un unico sindacato di categoria, che prenderà il nome Fim, Federazione italiana dei metalmeccanici. Vengono nominati gli organismi dirigenti provvisori, in attesa del primo congresso costitutivo che si sarebbe svolto un anno e mezzo dopo. È nominato segretario generale Franco Volontè.
12-14 ottobre 1951: a Genova la Fim Cisl celebra il suo primo congresso. È la data di nascita ufficiale. Ma già la Fim vive nelle decine di migliaia di iscritti (al congresso ne sono rappresentati più di 80.000) che proprio nel punto più difficile, l’industria metalmeccanica, dove più pesante è l’egemonia del sindacalismo comunista, danno vita a un’organizzazione di massa, autonoma, solidarista. Viene confermato come primo segretario generale Franco Volontè.
La nascita della Fim, insieme a quella contemporanea degli altri sindacati dell’industria, è un fatto importante per la Cisl e per tutto il movimento sindacale italiano: la Cisl è anche sindacato industriale, non solo del pubblico impiego o dei servizi; e anche nell’industria si afferma una pluralità di culture e organizzazioni sindacali.

MATURAZIONE

Gli anni Cinquanta sono i meno noti nella storia della Fim, ma meriterebbero uno studio più attento. Non sono anni “vuoti”: non si spiegherebbe il grande impulso degli anni Sessanta. C’è una maturazione, magari lontana dai clamori della cronaca ma con ciò non meno reale: nella formazione di nuovi quadri, con la conoscenza dei metodi di un sindacalismo insieme pragmatico e legato a forti valori solidaristici (l’apertura verso il sindacalismo anglosassone, il diffondersi delle idee di un cattolicesimo progressista, nutrito di idee provenienti soprattutto dalla Francia – ricordiamo la diffusione delle opere di Emmanuel Mounier e Jacques Maritain – ma vive anche in Italia – pensiamo all’esperienza di don Primo Mazzolari –, un cattolicesimo che precorre largamente i tempi del Concilio Vaticano II), nella difesa della propria identità e autonomia, pur nel clima aspro di quegli anni.
Verso la fine del decennio comincia a emergere la “personalità” della Fim, quella di un’organizzazione che sta maturando un sindacalismo rigoroso, poco accomodante, davvero autonomo.
Nel novembre 1958 la Fim di Brescia rinnova il suo gruppo dirigente, con alla testa un “uomo nuovo”, Franco Castrezzati, ex partigiano, di formazione cattolico-popolare, portatore di una cultura sindacale innovativa. Da quel momento la Fim bresciana svilupperà una netta autonomia, anche verso la Confederazione, e un forte impegno per l’unità di azione in particolare con la Fiom.
Significativa è la vicenda dei “premi antisciopero” (i lavoratori che scioperavano, oltre a perdere il salario per le ore di astensione dal lavoro, si vedevano esclusi dal premio di produzione). Era un ricatto pesantissimo, data la condizione di vita degli operai, e una brutale lesione del diritto di sciopero. A uno sciopero alla OM di Brescia nel novembre 1958 aderiscono solo 21 operai: di essi, 20 sono della Fim. Il risultato numerico è modesto, ma il segnale è importante, e le lotte condotte in seguito unitariamente, con la Fim alla testa, avranno la meglio sui ricatti aziendali.
Qualche mese prima, in marzo, alla Fiat di Torino, la Cisl nella persona dello stesso segretario generale Giulio Pastore era intervenuta per denunciare il clima di intimidazione instaurato dall’azienda alla vigilia delle elezioni delle rappresentanze sindacali e decideva di espellere dall’organizzazione la maggioranza dei componenti di Commissione interna nelle liste Fim perché troppo subalterni all’azienda. Fu uno shock e per la Fim, che da anni viveva un aspro conflitto interno, un’operazione dolorosa: da organizzazione di maggioranza alla Fiat, la Fim si ridusse a un manipolo di iscritti e rappresentanti. La Cisl e la Fim avevano scelto coraggiosamente di ripartire quasi da zero, con un gruppo di militanti e dirigenti non compromessi, pur di affermare la propria autonomia e un sindacalismo coerente, non proclive a cercarsi facili popolarità.
Queste vicende sono da comprendere sullo sfondo di una situazione nella quale il padronato era portatore, lui sì, di una cultura “antagonista”, che non riconosceva ai lavoratori, nel proprio ambito di comando, quei diritti che i cittadini si andavano conquistando nella società.
Nel terzo congresso (Milano 4-6 gennaio 1959; il secondo si era svolto a Torino dal 30 ottobre al 1° novembre 1954) l’accento è posto sulla formazione dei quadri e sul rafforzamento dell’organizzazione in fabbrica. Ed è proprio l’arrivo di nuovi quadri (tra questi Carniti e Bentivogli) formati alla scuola di Firenze che getta le basi per il rinnovamento della Fim. Convinti che la situazione sociale è insostenibile e che il sindacato deve muoversi per cambiarla, questi nuovi sindacalisti si preparano a dare battaglia.
Il contratto firmato nel 1959 lascia la Fim insoddisfatta, perché ne avverte i limiti profondi: troppo tradizionale, non all’altezza di una società in fermento e in rapida trasformazione. La Fim si prepara così a mobilitarsi nelle aziende, rafforzando le proprie rappresentanze di fabbrica: è ormai pronta per il grande balzo in avanti degli anni Sessanta.

ANNI ’60 – SCENARIO

Dal 1959 al 1963 corrono gli anni del “boom economico”: accelerata industrializzazione concentrata al Nord, sviluppo dei consumi di massa, grandi ondate migratorie dal Sud al Nord, dalla campagna alla città. La televisione comincia a entrare in tutte le case, si fondono mentalità e linguaggi, si trasforma la cultura della gente.
Il quadro politico centrista non regge più. Il paese è cambiato, c’è bisogno di allargare il quadro politico soprattutto per rispondere alla domanda emergente da un mondo del lavoro in forte ebollizione rivendicativa. Nel 1960 un’ondata di agitazioni scuote il paese (ricordiamo gli scontri in piazza a Genova e a Roma, i morti di Reggio Emilia) e pone fine all’avventura autoritaria del governo Tambroni (alleanza Dc-Msi). Il quadro politico si apre verso sinistra, i socialisti entrano nell’area del governo, dopo che si erano resi autonomi dal Partito comunista. Si apre l’era del centro sinistra che, malgrado i suoi limiti, segna un importante progresso politico, culturale e sociale. Si profilano con i primi tentativi di programmazione le linee di una politica economica, verso la quale la Cisl mostra interesse, perché è convinta che il sindacato non può limitarsi alla distribuzione del reddito, ma deve intervenire anche nei processi di accumulazione, di risparmio, degli investimenti, dei consumi.
I primi anni Sessanta sono caratterizzati anche da profondi mutamenti culturali che toccano da vicino la sensibilità della Cisl, a cominciare dalla Chiesa. Sono infatti gli anni del pontificato di Giovanni XXIII e del Concilio Vaticano II, che innesca una forte movimento di riforma e di apertura. Nel mondo cattolico si liberano grandi energie di libertà, di progresso e di impegno sociale. Ne beneficiano grandemente la Cisl e la Fim, dove già tanti militanti e dirigenti avevano precorso le aperture conciliari.
Sul piano internazionale, ci sono prima il “disgelo” e poi la “distensione” tra Est e Ovest (è l’era di Kennedy e Kruscev), mentre i paesi del “terzo mondo” si vanno liberando dai vincoli coloniali.
Ma è una stagione di breve durata. Il 3 giugno 1963 muore Giovanni XXIII, cui succede Giovan Battista Montini con il nome di Paolo VI; il 22 novembre viene assassinato a Dallas il presidente americano Kennedy. L’anno dopo in Urss viene destituito Kruscev, sostituito da Leonid Breznev: Nello stesso anno sbarcano in Vietnam i primi Marines americani e comincia la “escalation” militare ordinata dal presidente Johnson; nell’agosto 1968 si riaffacciano sulla scena i carri armati sovietici a Praga, per soffocare il tentativo di costruzione in Cecoslovacchia di un regime socialista e democratico. Questa volta il Pci esprime un aperto, anche se travagliato dissenso.
Dal 1966 imperversa in Cina la “rivoluzione culturale” lanciata dal presidente Mao che eserciterà un profondo influsso su molti intellettuali di sinistra e su molti giovani del “68”.
Verso la fine del decennio l’Occidente è attraversato da profondi sommovimenti sociali e culturali che hanno il loro epicentro nella rivolta degli studenti, che nella primavera del 1968 esplode in tutta Europa e anche in Italia. È una rivolta libertaria, antiautoritaria, che denuncia le ingiustizie del capitalismo, le storture di uno sviluppo squilibrato e di un consumismo privo di valori, ma anche la sclerosi burocratica del comunismo di obbedienza sovietica. Balza in primo piano la solidarietà verso i movimenti di liberazione del terzo mondo.
Un profondo influsso esercita in quegli anni in Italia, specie in alcuni ambienti della Cisl, l’esperienza della Scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani, che propugna con accenti aspri un modello di educazione volto all’autonoma crescita culturale e civile degli strati più umili della società.
Parallelamente in Italia tra i lavoratori, specie i più giovani e immigrati dal Sud, si crea un potente movimento di rivendicazione, che troverà momenti di convergenza con quello degli studenti, ma è sostenuto da ragioni politiche e sociali proprie. La spinta riformatrice del centro sinistra si è appannata, non mantiene le sue promesse. Dopo gli anni del “boom” economico, il mondo produttivo è attraversato da profondi segni di crisi (la “congiuntura”), peggiorano le condizioni di lavoro mentre crescono le esigenze di partecipazione e di miglioramento economico. Contemporaneamente si avvertono i pericoli di svolte autoritarie (tentativi di “golpe”). Comincia la “strategia della tensione”: il 12 dicembre 1969 a Piazza Fontana a Milano un criminale attentato provoca 16 morti e 90 feriti. Sarà soprattutto il mondo del lavoro, con i sindacati alla testa, a difendere la democrazia con una mobilitazione incessante, e a promuovere più democrazia entrando come protagonista nella scena politica e sociale.

ANNI ’60 – STORIA DELLA FIM

LOTTE E CONTRATTAZIONE

Nel vivo del “boom economico” si risvegliano anche le lotte operaie. In esse la Fim si caratterizza come organizzazione di prima linea, pronta alla lotta anche la più dura ma mai fine a se stessa: l’intensa mobilitazione di quegli anni è costantemente rivolta allo sbocco contrattuale e all’affermazione dei diritti individuali e sindacali in fabbrica.
In questo quadro maturano anche le condizioni di una progressiva unità di azione con la Fiom e la Uilm, che la Fim lega costantemente alla battaglia per l’autonomia sindacale.
Il decennio si apre con la lunga lotta dei lavoratori del settore elettromeccanico, condotta unitariamente da Fim, Fiom e Uilm. A Milano, epicentro dell’agitazione, si vedono per la prima volta anche gli studenti sfilare con i cortei operai. Rimane nella memoria il “Natale in piazza”, con gli operai in Piazza Duomo a Milano: un evento che desta sorpresa e anche qualche scandalo nella buona borghesia milanese.
Il 10 dicembre 1960 per la prima volta le aziende pubbliche, rappresentate dall’Intersind e dall’Asap, firmano l’accordo per il contratto separatamente dalla Confindustria (tra l’altro, l’orario di lavoro settimanale è ridotto di un’ora e mezza). Va ricordato che nella primavera di quell’anno, in attuazione della legge del 1956 che istituiva il Ministero delle Partecipazioni statali, nascono l’Intersind e poi l’Asap, le organizzazioni sindacali delle imprese a capitale pubblico dell’Iri e dell’Eni che così escono da Confindustria. È un evento fortemente sostenuto dalla Cisl, che vi coglierà un’importante occasione di sperimentazione innovativa nelle relazioni industriali e nella contrattazione.
La Fim non aspetta a valorizzare questa opportunità. Nella siderurgia pubblica, all’Italsider, il 30 aprile 1961 si raggiunge un importante accordo sulla “job evaluation”, sulla valutazione della prestazione lavorativa secondo determinati criteri, introducendo anche un sistema di controllo sindacale sull’organizzazione del lavoro e di conciliazione delle vertenze. La Fim, che è stata forza trainante nella vertenza, si afferma come sindacato che si misura positivamente con i problemi di un’industria moderna, puntando a gestire contrattualmente i cambiamenti.
Il cuore dell’iniziativa della Fim è l’impegno per la contrattazione aziendale; vengono promosse azioni a vasto raggio con decine di vertenze, come a Milano nel gennaio 1962.
Il contratto del 17 febbraio 1963 segna un’affermazione del potere sindacale: vi sono cospicui aumenti salariali, l’orario dei siderurgici scende a 40 ore settimanali, si ottengono la parità di trattamento uomo-donna e un avvicinamento alla parità operai-impiegati. Soprattutto viene conquistato il diritto alla contrattazione integrativa.
La Fim sente “proprio” questo risultato e lo valorizza sviluppando un’intensa attività formativa, anche tecnica, a ogni livello, di base e dirigenziale, per attrezzare tutte le strutture periferiche e di fabbrica a condurre la contrattazione aziendale.
Grande stratega della formazione Fim sarà, da questo momento fino agli anni Settanta, l’emiliano Pippo Morelli, che ha contribuito in modo decisivo – lui, credente convinto – a “laicizzare” e ad aprire la cultura della Fim fuori da ogni recinto.
La contrattazione integrativa, tuttavia, non è acquisizione pacifica e incontra ostacoli crescenti.
Si arriva così al contratto del 1966, oggetto di uno scontro durissimo. La Confindustria vorrebbe “congelare” i premi di produzione, oggetto di contrattazione integrativa dopo il 1963. Viene proposta una tregua alle agitazioni, in attesa di un incontro centrale con le confederazioni: Fiom e Uilm accettano, ma la Fim decide di proseguire le agitazioni da sola, destando sorpresa nell’opinione pubblica. Ma l’intransigenza della Fim è dettata non da massimalismo ideologico, bensì da concrete ragioni sindacali: “congelando” i premi di produzione si finirebbe col vanificare di fatto la prospettiva della contrattazione aziendale. Alla fine, tra novembre e dicembre, dopo alterne aperture e irrigidimenti, il contratto è firmato. Gran parte della Fim giudica deludenti i risultati, diversi dirigenti non firmano, vedendo in pericolo la causa della contrattazione articolata.

UN’ORGANIZZAZIONE NAZIONALE

Negli anni Sessanta la Fim vede progressivamente collegarsi le varie esperienze locali, si articola su tutto il territorio nazionale.
Il centro propulsore è la Lombardia, in particolare Milano (dove a quell’epoca c’è anche la sede nazionale) e Brescia.
A Torino, dopo i fatti del 1958, si consolida un’avanguardia coraggiosa, fatta segno alla repressione della Fiat.
A Genova, dove è importante la presenza dell’industria pubblica, c’è una Fim attenta agli sviluppi tecnologici e organizzativi, ai problemi dei tecnici e degli impiegati ma anche agli strati operai meno qualificati, immessi in massa nel lavoro industriale.
Nel Veneto la Fim si afferma in numerose e aspre lotte come organizzazione di punta, fa crescere un gran numero di quadri e acquista una forte identità di categoria. Qui più che altrove crescono gli iscritti e la Fim diventa l’organizzazione di maggioranza tra i metalmeccanici.
In Emilia Romagna, Toscana, Marche, la Fim afferma una forte identità in un contesto difficile, segnato dalla pesante egemonia del sindacalismo comunista, ed esprime importanti dirigenti di livello nazionale.
Anche nel Lazio e in Abruzzo, con il progressivo estendersi di importanti aree industriali, specie a Roma, Latina, L’Aquila, i metalmeccanici della Cisl cominciano a far sentire la loro presenza, mentre in Umbria si forma una combattiva presenza soprattutto attorno alle acciaierie di Terni.
Ma la Fim emerge anche al Sud, a cominciare da Taranto, dove un gruppo di giovani militanti, travasati dai cantieri alle acciaierie dell’Italsider, porta al completo rinnovamento del gruppo dirigente.
A Napoli la crescita della Fim è sostenuta da una forte corrente cattolica popolare.
In Sicilia la Fim si sviluppa in particolare nelle nuove concentrazioni industriali di Palermo, Catania, Siracusa, mentre in Sardegna sviluppa una cultura originale, legata alle peculiarità dell’isola (agli inizi degli anni Ottanta, la Fim sarda imprimerà anche nel nome un connotato etnico, chiamandosi da allora in poi Fsm, in lingua sarda: Federatzione sarda metalmecanicos).

RINNOVAMENTO

La Fim degli anni Sessanta è attraversata da profondi processi di rinnovamento. Si rinnova il gruppo dirigente, nazionale e periferico.
Il quarto congresso (Bergamo, 30 marzo-1° aprile 1962) propone il riconoscimento del sindacato nelle aziende per far partecipare le rappresentanze sindacali aziendali alle trattative e alla gestione degli accordi. È un congresso importante, carico di tensioni, che fa emergere i giovani sindacalisti in primo piano.
Nel novembre 1963 alla guida della Fim Franco Volonté, dimissionario, cede il posto a Luigi Macario, sostenitore nella Cisl della linea più innovatrice. Lo affiancheranno “uomini nuovi” come Pierre Carniti, Nino Pagani, Raul Valbonesi, Franco Castrezzati, Giambattista Cavazzuti, tutti sulla stessa linea.
Al quinto congresso nazionale della Cisl, (Roma, aprile 1964), questi dirigenti, insieme ad altri periferici della Fim che stanno emergendo, intervengono a raffica per chiedere alla confederazione un sindacato più coerentemente contrattualista e autonomo.
C’è anche fermento, rinnovamento culturale. “Il ragguaglio metallurgico”, organo mensile della Fim, si apre a un ampio dibattito interno. Nel febbraio 1964 nasce “Dibattito sindacale”, una rivista diretta da Pierre Camiti (allora ancora segretario della Fim milanese) che diventa strumento di battaglia politica e culturale non solo dentro la Cisl, ma anche verso la Fiom e la Uilm. Si consolidano i legami con la sinistra cattolica, in particolare con le Acli anch’esse in forte e parallela evoluzione, ma anche fuori del mondo cattolico.
Nascono esperienze nuove nel campo della formazione. Nella memoria di molti sono rimasti i “campi estivi” di Renesso (Appennino ligure), dove tra il 1967 e il 1968 si svolgono corsi con metodi nuovi, introducendo la figura dell’animatore, il lavoro di gruppo, la ricerca collettiva.
Dal 9 all’11 ottobre 1964 si svolge a Novara la prima conferenza organizzativa, importante per la messa a punto dei motivi innovatori nella Fim: autonomia, superamento della spaccatura tra lavoratori e unità d’azione, impegno formativo, democrazia nel sindacato, ruolo delle rappresentanze di fabbrica. Attenzione anche per gli impiegati, con la formazione di “consulte” specializzate al centro e in periferia.
La Fim non si occupa solo del quotidiano sindacale, ma anche della crescita democratica e civile dei suoi militanti e iscritti. Resta nella memoria l’intervento all’assemblea di Novara dell’ex partigiano Ermanno Gorrieri che tiene una lezione-testimonianza sulla Resistenza.
A Brescia (14-16 marzo 1965) si tiene il quinto congresso, che affronta in particolare i problemi e le difficoltà che va incontrando la contrattazione articolata nelle aziende. Per questo la Fim accentua l’impegno sui problemi dei diritti dei lavoratori e del sindacato in fabbrica: il 3 aprile 1966 a Torino la Fim indice su questi temi una manifestazione, contro le rappresaglie della Fiat. Importanti le adesioni dall’esterno: l’arcivescovo di Torino padre Pellegrino, Livio Labor delle Acli, Riccardo Lombardi del Psi, e ancora Francesco De Martino del Psi, Vittorino Colombo della Dc.
Cresce anche l’impegno in campo internazionale: rapporti con sindacati stranieri, in particolare con la Cfdt francese molto vicina per storia e cultura alla Cisl; mobilitazione per le lotte di liberazione “a tutto campo” (terzo mondo, America Latina); sviluppo di legami privilegiati con il sindacalismo indipendente e democratico della Spagna ancora oppressa dalla dittatura di Franco.
La Fim non guarda in faccia a nessuno: si mobilita sia contro la guerra americana in Vietnam che contro l’oppressione sovietica in Cecoslovacchia.

UNITÀ E AUTONOMIA

Fin dagli inizi degli anni Sessanta maturano le condizioni per un’unità di azione con la Fiom e la Uilm. Ciò crea anche forti tensioni dentro la confederazione.
È un’unità difficile, disseminata di conflitti specie con la Fiom, perché la Fim ribadisce costantemente una condizione: l’autonomia dalle forze politiche e, come premessa indispensabile di essa, l’incompatibilità tra cariche politiche e cariche sindacali, che per la Fim è già linea acquisita fin dal congresso di Bergamo del 1962. Non è un processo indolore, e la questione dell’incompatibilità crea degli shock anche dentro la Cisl. Maggiori difficoltà incontrano su questa via anche la Fiom e la Uilm, nelle quali sono attive le componenti di partito, ma anch’esse alla fine del decennio fanno proprio questo principio.

IL ‘68 E L’AUTUNNO CALDO

Le spinte antiautoritarie e libertarie del ‘68 trovano un terreno fertile nella Fim. Ad essa vengono nuove adesioni, con nuovi apporti culturali che vanno dal marxismo critico al socialismo libertario. La Fim fa presa tra le giovani generazioni di lavoratori, cresce numericamente: i 189.000 del 1969 diventano quasi 260.000 nel 1970, per superare poi i 300.000.
Tra il 1968 e il 1969 si dispiega un potente movimento rivendicativo dei lavoratori, specie dell’industria. Nelle fabbriche è contestato l’autoritarismo nell’organizzazione del lavoro, si chiedono nuovi diritti e migliori condizioni di vita e di lavoro. Il sindacato modifica la sua organizzazione di fabbrica, man mano che si sviluppano la contrattazione aziendale e il processo unitario. Nascono strutture unitarie all’insegna di una forte partecipazione dal basso. Si estendono le lotte per le riforme, con i sindacati sempre più spesso schierati unitariamente.
La tensione sociale, alla fine degli anni Sessanta, è altissima nel mondo del lavoro. Ci sono momenti drammatici: il 2 dicembre 1968 ad Avola, durante una manifestazione duramente repressa dalla polizia, muoiono due braccianti iscritti alla Cisl; altri due lavoratori sono uccisi a Battipaglia il 9 aprile 1969. Tutto un clima di intimidazione si crea attorno al mondo del lavoro in ebollizione.
Al sesto congresso nazionale (Sirmione 12-14 giugno 1969), la Fim si prepara all’imminente contratto di categoria. Ma ci sono anche altri temi che tengono banco: si accentua la spinta anticapitalistica nell’organizzazione, si critica a fondo l’organizzazione tayloristica del lavoro, si preme per l’unità con Fiom e Uilm, si richiede una maggiore democrazia interna nella Cisl. Analoghi processi di radicalizzazione si esprimono nei contemporanei congressi delle categorie della Cisl, specie dell’industria.
A fine luglio 1969 Fim, Fiom e Uilm mettono a punto la piattaforma unitaria per il contratto. Le richieste rispecchiano da vicino il bagaglio culturale della Fim: settimana lavorativa di 40 ore per tutti, controllo degli straordinari, ampliamento dei diritti sindacali, parità normativa tra operai e impiegati, aumenti uguali per tutti. La mobilitazione è fortissima, la tensione anche. Siamo all’“autunno caldo”. La partecipazione dei lavoratori, anche degli impiegati, agli scioperi è massiccia. A Torino, il 25 ottobre 1969, un’imponente manifestazione regionale unitaria dà un saggio anticipato di quella che si sarebbe svolta di lì a poco a Roma.
Qui infatti il 28 novembre 1969, a piazza del Popolo, oltre centomila metalmeccanici da tutta Italia ascoltano i comizi dei tre leader Macario, Trentin, Benvenuto. E finalmente i contratti arrivano in porto (l’8 dicembre con le aziende pubbliche, il 23 dicembre con la Federmeccanica).
Per il sindacato è un grande successo: consistenti aumenti salariali, settimana di 40 ore, allargamento dei diritti sindacali (diritto di assemblea, riconoscimento dei delegati aziendali: si estende infatti l’esperienza dei consigli dei delegati come rappresentanza unitaria, al posto delle commissioni interne), diritto alla contrattazione integrativa.
Ancora una volta la Fim riparte con un’intensa attività formativa per attrezzare le proprie strutture a gestire i risultati contrattuali.

ANNI ’70 – SCENARIO

Il decennio che si apre all’indomani dell’“autunno caldo” è caratterizzato da una profonda stasi degli assetti sociali ed economici non solo in Italia, ma in tutto il mondo industrializzato: si ferma la crescita economica, con la crisi petrolifera aumentano i prezzi delle materie prime, le economie industriali rispondono avviando intensi processi di ristrutturazione, il problema sociale numero uno diventa l’occupazione. Crescono vaste aree di emarginazione sociale, dove troviamo soprattutto i giovani e le donne.
Cambia in Italia la cultura della gente: il referendum sul divorzio (12 maggio 1974), vinto clamorosamente dai “no” all’abrogazione della legge, è la spia di un paese divenuto più laico, più aperto. Nello schieramento dei “no” si impegnano a titolo personale anche molti dirigenti della Fim e della Cisl, persino intellettuali democristiani.
Anche gli equilibri politici si modificano.
L’avanzata delle sinistre nelle elezioni amministrative del 1975 e in quelle politiche del 1976 movimenta il quadro politico; tra l’altro, cambiano le giunte nelle maggiori città italiane. Il Pci, che nel 1973 aveva teorizzato il “compromesso storico”, cioè l’alleanza di governo con le maggiori forze politiche popolari, lo mette in pratica tra il 1976 e il 1979, entrando nell’area di governo prima con l’astensione e poi con l’appoggio dall’esterno. Nello stesso tempo, con la rivendicazione di autonomia da Mosca, si comincia a parlare di un “eurocomunismo” con alla testa il Pci di Enrico Berlinguer, che comincia a fare i conti positivamente con il contesto delle società democratiche occidentali.
Negli anni Settanta emerge anche un terrorismo “rosso”, che assume particolare virulenza verso la fine del decennio. Il caso più clamoroso, con effetti politici laceranti, è il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, il più importante uomo politico della Democrazia cristiana (primavera 1978). Questo terrorismo sembra accanirsi contro l’area progressista e riformista: tra le sue vittime ricorderemo il giudice Emilio Alessandrini e il giornalista Carlo Casalegno. Non risparmia neanche le fabbriche, dove ha trovato pericolose nicchie: nel gennaio 1979 le Brigate rosse assassinano un lavoratore e sindacalista metalmeccanico della Fiom, il genovese Guido Rossa. Nel solo 1979 le Brigate Rosse assassinano 29 persone.
Intanto il terrorismo “nero” continua a colpire impunemente: basta ricordare le impressionanti stragi di Piazza della Loggia a Brescia, durante un comizio tenuto da Franco Castrezzati (maggio 1974), e del treno “Italicus” sulla Bologna-Firenze (agosto 1974).
Il movimento sindacale è in prima linea nella difesa della democrazia. È anche un punto di riferimento per importanti sviluppi democratici che attraversano la magistratura, le forze di polizia (nasce il “sindacato di polizia”), il mondo del giornalismo, la scuola.
Nella seconda metà del decennio affiorano allarmanti difficoltà di rapporto tra sindacato e mondo giovanile e studentesco, interessato da fenomeni di radicalizzazione estrema (siamo nel 1977). Emblematica è la violenta contestazione al comizio di Luciano Lama all’università di Roma nel febbraio 1977. Per il sindacato, appare sempre più difficile rappresentare un mondo giovanile in gran parte esposto alla disoccupazione e all’assenza di prospettive per il futuro, ma che ha anche sviluppato modelli culturali e modi di vita con i quali la sinistra e il sindacato stentano a trovare canali di comunicazione.
Grandi eventi caratterizzano il panorama internazionale degli anni Settanta. Nel 1973, in Cile, un sanguinoso golpe guidato dal generale Pinochet soffoca nel sangue l’esperimento socialista democratico di Salvatore Allende; migliaia di profughi si spargono per il mondo e vengono accolti anche in Italia.
In Europa invece muoiono vecchie dittature, tre paesi tornano alla democrazia: in Grecia cade la dittatura “dei colonnelli” (luglio 1974); in Portogallo l’incruenta rivoluzione “dei garofani” abbatte il regime di Salazar (aprile 1975); in Spagna muore il “caudillo” Francisco Franco (novembre 1975), crolla la dittatura, sale al trono Juan Carlos I di Borbone che avvia il ritorno alla democrazia.
In Asia termina la guerra del Vietnam (aprile 1975) con la sconfitta degli Stati Uniti e la riunificazione del paese sotto le bandiere della Repubblica popolare. Nel 1976 muoiono prima Ciu En Lai e poi Mao Tse Tung: la Cina inverte la rotta, abbandona il maoismo e sotto Deng Xiao Ping si apre ai rapporti con l’Occidente e a una liberalizzazione progressiva dell’economia, senza però maturare una democrazia politica.
Storico cambiamento ai vertici della Chiesa cattolica: il 6 agosto muore Paolo VI, gli succede per un solo mese Albino Luciani (Giovanni Paolo I) e alla morte di questi viene eletto il polacco Karol Wojtyla, che prende il nome di Giovanni Paolo II.
Alla fine del decennio si apre un periodo di tensione tra Est e Ovest, con l’installazione di missili in Europa da una parte e dall’altra della “Cortina di ferro”. Si affaccia lo spettro di una guerra nucleare.
Nel 1979 in Europa si svolgono le prime elezioni per il Parlamento europeo; viene creato lo Sme, il Sistema monetario europeo, che consente alla monete della comunità di “fluttuare” nei cambi entro una banda mobile (il “serpente monetario”). In Gran Bretagna Margaret Thatcher è nominata primo ministro: si apre un’era di liberismo selvaggio, di smantellamento delle garanzie sociali, di emarginazione del sindacato.

ANNI ’70 – STORIA DELLA FIM

LE POLITICHE SINDACALI

Gli anni Settanta si aprono con un evento cruciale per la storia sociale e sindacale italiana: il 20 maggio 1970 viene approvata la legge 300, lo “Statuto dei lavoratori”, che garantisce fondamentali diritti ai lavoratori e ai loro sindacati.
Nel settore metalmeccanico si raggiungono importanti accordi: nel giugno 1971 alla Fiat, su ambiente di lavoro, cottimi e passaggi di categoria, dopo grandi lotte unitarie; nel luglio 1971 all’Alfa Romeo, dove il primo contratto integrativo stabilisce la parità di trattamento tra i lavoratori di Pomigliano e quelli di Arese; e ancora, negli anni successivi, alla Zanussi, di nuovo all’Alfa, all’Olivetti, all’Italsider sugli investimenti nel Mezzogiorno.
Grande importanza hanno i contratti nazionali.
Con il contratto del 1973 (in marzo con Intersind e Asap, in aprile con la Federmeccanica) si conquistano l’inquadramento unico operai-impiegati, le 150 ore retribuite per l’aggiornamento culturale dei lavoratori, gli aumenti uguali per tutti; nelle imprese pubbliche i siderurgici ottengono la settimana di 39 ore.
Il contratto del 1976 (firmato il 1° maggio) ottiene i diritti di informazione, una vera novità nel sindacalismo occidentale, e la settimana di 39 ore per i siderurgici privati.
Infine, nel contratto del 1979, per la prima volta emerge la questione della riduzione dell’orario di lavoro come centro della vertenza contrattuale. La Fim si impegna strenuamente per questa rivendicazione, osteggiata da una parte della componente comunista della Fiom, e riesce a far prevalere la sua linea all’assemblea di Bari per l’approvazione della piattaforma (dicembre 1978). Il contratto, ottenuto dopo una lunghissima lotta (luglio 1979), registra un risultato modesto su questo punto, ma è pur sempre un primo passo significativo.
Sul piano confederale, è storico l’accordo del 25 gennaio 1975 tra sindacati e Confindustria per l’unificazione del punto di contingenza (sostenuta soprattutto dalla Cisl) al livello più alto. Ma l’inflazione crescente pone ben presto dei problemi, il sindacato è chiamato a “farsi carico delle compatibilità” economiche: nel marzo 1977 viene raggiunto un accordo che “deindicizza”, cioè sottrae al calcolo della contingenza le liquidazioni e abolisce 5 festività. È un accordo che implica un mutamento di atteggiamento da parte del sindacato verso i problemi dell’economia e perciò solleva difficoltà e opposizioni alla base e in diversi settori delle organizzazioni sindacali.
Le politiche sindacali di quest’epoca si riassumono nella “linea dell’Eur” (piattaforma approvata dai consigli generali di Cgil, Cisl e Uil riuniti al palazzo dei congressi dell’Eur, a Roma, dal 13 al 15 febbraio 1978): attenzione alle compatibilità economiche e sociali, contenimento delle rivendicazioni per favorire l’occupazione e il Mezzogiorno.
Queste priorità generali fanno emergere il ruolo delle confederazioni, si appanna quello delle categorie. La Flm continua tuttavia a essere un grande riferimento politico e sociale: la manifestazione di oltre 200 mila metalmeccanici a Roma (2 dicembre 1977) ha un fortissimo impatto politico e anche un grande significato democratico: dopo mesi di tensione, durante i quali per motivi di ordine pubblico è proibito manifestare a Roma, i metalmeccanici “si riappropriano” della piazza in modo pacifico e democratico.
È un momento alto dell’autonomia della Flm, la cui iniziativa di lotta non è gradita alle confederazioni e tanto meno al Pci, che all’epoca sostiene il governo e fa di tutto per scongiurarla. Crea sensazione la vignetta di Forattini sulla “Repubblica”, nella quale si vede Berlinguer a casa in vestaglia e pantofole mentre sotto la sua finestra passa rumorosa la manifestazione dei metalmeccanici.

L’UNITÀ MANCATA

Agli inizi degli anni Settanta, con il moltiplicarsi delle iniziative unitarie, si comincia a parlare di “unità organica” e anche a prevedere i tempi per la costituzione del sindacato unitario. Ma il processo si interrompe e, dopo una serie di riunioni lungo due anni, il risultato finale è la costituzione della Federazione unitaria Cgil, Cisl e Uil tenuta insieme da un patto federativo (Roma, 24 luglio 1972).
Intanto verso l’unità organica continuano a correre i metalmeccanici, con in testa la Fim. Già si prevedono i congressi di scioglimento delle organizzazioni. La Fim lo fa con il settimo congresso straordinario del 19-20 maggio 1972 a Milano, dove decide all’unanimità di sciogliersi e di dare vita alla federazione unitaria dei metalmeccanici. Pochi giorni dopo, a Brescia, l’assemblea unitaria di Fim, Fiom e Uilm annuncia per l’ottobre di quell’anno la data del congresso di fondazione del sindacato unitario dei metalmeccanici.
Questo congresso non si farà mai. Le confederazioni hanno preso un’altra strada. I metalmeccanici, rimasti “in mezzo al guado”, comunque si riuniscono nella Flm, che ha la sua sede nazionale a Roma in corso Trieste 36; vengono unificati bilanci, stampa, formazione, attività internazionale (estate 1972).
Ma non si giunge all’unità organica. Anzi, ben presto si annunciano i sintomi di deterioramento delle strutture unitarie, a cominciare dai consigli dei delegati. Già nella prima conferenza di organizzazione della Flm (Bellaria, novembre 1974) si denunciano nella relazione e nel documento unitario le interferenze dei partiti, i tentativi di egemonia, la tendenza di troppi delegati a rappresentare non già unitariamente i lavoratori, bensì la loro componente quando non il loro partito.
Questi processi di deterioramento, malgrado le ripetute denunce, si aggraveranno nel corso degli anni Settanta.

GLI SVILUPPI NELLA FIM

Nei primi anni Settanta la Fim, cresciuta numericamente, culturalmente e in peso politico, è forza trainante nel progetto di un profondo rinnovamento del sindacato. Guidata da Pierre Carniti, divenuto segretario generale nell’aprile 1970 (Macario è passato in segreteria confederale), la Fim concentra le sue energie in due direzioni: l’unità nella Flm, il rinnovamento della Cisl.
L’unità nella Flm: è dalla Fim che vengono le maggiori forzature per realizzare il progetto unitario, che essa vincola strettamente alla piena acquisizione da parte di tutti di una ferma autonomia dalle forze politiche; ed è la Fim che “tira la carretta” per reggere fintanto che è possibile la prospettiva unitaria. Protagonista instancabile nella creazione del sindacato unitario è Alberto Gavioli, responsabile organizzativo della Fim, che morirà prematuramente nel 1983.
Ma nella Flm, per le degenerazioni già descritte e la caduta progressiva dell’autonomia, cominciano a porsi alla Fim dei problemi di un recupero di identità dell’organizzazione, già emersi fin dall’ottavo congresso (Bergamo, 31 maggio-3 giugno 1973). Ai temi dell’identità la Fim dedica un seminario nell’autunno 1974 a Verona. I problemi si ripropongono al nono congresso (Montecatini, 23-26 maggio 1977), dal quale peraltro escono un forte messaggio unitario e una pressione a proiettare sul territorio le esperienze democratiche e unitarie sviluppate in fabbrica. Tuttavia la Flm è sempre meno un riferimento credibile, nasce l’esigenza di strumenti organizzativi propri, a cominciare dalla formazione, un bisogno non più coperto dalle iniziative unitarie. È così che il consiglio generale di Modena dell’aprile 1979 decide la realizzazione di un centro di formazione proprio della Fim. Sarà il “Romitorio” di Amelia.
Il rinnovamento della Cisl: la Fim è alla testa delle forze che vogliono fare della confederazione un’organizzazione più progressista e autonoma, aperta e non timorosa di assumere un ruolo guida. Il rinnovamento della Cisl è un fatto, indicato anche dai numeri: all’assemblea organizzativa di Napoli (novembre 1975), la confederazione registra 2 milioni e mezzo di iscritti. Dal 1968 è cresciuta del 52%, ma l’incremento più alto è avvenuto proprio nelle categorie dell’industria (+63%), che così accrescono il loro peso politico.
Ci sono tuttavia anche resistenze al rinnovamento e al processo unitario; nel 1972 prende avvio un tentativo scissionista promosso da una minoranza della Cisl e appoggiato dal sindacato americano Afl-Cio, facente capo al segretario confederale Vito Scalia. La Fim è in primo piano nel combattere questo tentativo, che non avrà esito; nel 1975 Scalia viene destituito dalla sua carica.
La Fim “investe” i suoi uomini sempre più nella confederazione: dopo Macario, anche Carniti nel luglio 1974 passa in confederazione, sostituito alla guida della Fim da Franco Bentivogli. Il coronamento di questi sforzi lo si ha al congresso confederale del giugno 1977, nel quale si confrontano due “tesi” contrapposte (nel congresso di Bergamo di due mesi prima la Fim si era espressa contro ogni tentativo di integrazione tra i due schieramenti: no a mediazioni dettate da preoccupazioni gestionali, sì a un franco confronto tra posizioni politiche chiare). Dunque, al congresso Cisl si vota e vince lo schieramento progressista. A Macario, divenuto nel frattempo segretario generale della Cisl, si affiancherà Carniti come “aggiunto”: due uomini della Fim sono ora alla guida della confederazione. Il “travaso” di uomini della Fim avviene anche verso altre categorie dell’industria e verso importanti strutture periferiche della Cisl.
Pur nelle difficoltà dentro la Flm, la Fim non smarrisce i suoi valori e riesce a imporli nella contrattazione: le conquiste egualitarie dei primi anni Settanta, la solidarietà soprattutto verso i disoccupati. È del 1978 il libro “Lavorare meno per lavorare tutti” firmato da Carniti, Morese, Frey, Cacace. La Fim apre la battaglia per la riduzione dell’orario di lavoro.
Infine, l’impegno internazionale: anche qui la Fim lo esercita nell’ambito unitario della Flm, investendo energie e uomini. È un uomo della Fim, Alberto Tridente, a guidare la politica internazionale dei metalmeccanici italiani e a imprimere ad essa una forte caratterizzazione. In particolare si sviluppa la presenza italiana nell’ambito della Fem, la Federazione europea dei metalmeccanici, mentre si lavora per costruire le condizioni dell’entrata della Flm nella Fism, la Federazione internazionale dei sindacati metalmeccanici. Contemporaneamente si dispiega l’iniziativa di solidarietà internazionale, sempre in ambito Flm ma senza rinunciare a proprie accentuazioni. La Fim è in prima linea, insieme alla Cisl, nell’accogliere e integrare nel proprio lavoro esuli cileni in fuga dalla repressione di Pinochet.

ANNI ’80 – SCENARIO

Sono gli anni che celebrano il trionfo del libero mercato, il prevalere nelle politiche economiche del liberalismo “selvaggio”, che ha i suoi massimi campioni nei governi di Ronald Reagan (eletto presidente nel 1981) negli Stati Uniti e della signora Thatcher in Gran Bretagna. Ne sono conseguenza l’abbattimento delle tutele sociali e la marginalizzazione dei sindacati.
In Italia, sul piano economico, la scena è dominata dall’inflazione, ormai arrivata sopra il 20%, da una pesante recessione internazionale e dal conseguente dilagare della disoccupazione. Le aziende ristrutturano e si rinnovano a ritmo accelerato, crescono le eccedenze di manodopera, la cassa integrazione diventa un mostro assistenziale divoratore di risorse.
Vengono alla ribalta nuovi temi, come quello del degrado ambientale e dei rischi connessi all’utilizzo dell’energia nucleare. Quest’ultimo tema balza in primo piano con il moltiplicarsi di inquietanti incidenti, il più grave dei quali è l’esplosione della centrale Cernobil in Unione Sovietica (aprile 1986). Sull’onda delle emozioni suscitate da questi eventi, si svolge in Italia il referendum per la chiusura delle nostre (poche) centrali nucleari. Su questo la sinistra e il sindacato sono divisi e alla fine prevarrà lo schieramento antinucleare.
Cambia il quadro politico: il Pci passa risolutamente all’opposizione, che si accentua con l’emergere del Psi come ago della bilancia di ogni possibile coalizione (il governo Craxi inizia nell’estate del 1983). Il conflitto tra i due maggiori partiti della sinistra storica raggiunge toni esasperati, con pesanti ripercussioni nel sindacato, specie nella Cgil.
Cambia il quadro sindacale, sotto la pressione crescente degli schieramenti politici. I margini di autonomia si riducono e, con essi, va in frantumi quanto restava dell’unità sindacale.
Il 1984 è l’anno chiave: la spaccatura è verticale, da un lato la componente comunista, dall’altro la Cisl, la Uil e la componente socialista della Cgil. Alla metà degli anni Ottanta qualcosa si ricompone, ma nel senso di un riconosciuto pluralismo sindacale, destinato a durare nel tempo.
Intanto si rifà vivo il terrorismo, rosso e nero. Tra le vittime illustri del primo ricorderemo il giornalista Walter Tobagi, i professori Vittorio Bachelet e Roberto Ruffilli. Anche la Cisl è duramente colpita: il 27 marzo 1985 viene assassinato all’università di Roma Ezio Tarantelli, consigliere economico di Pierre Carniti.
Il terrorismo nero è autore del crimine più grave, la strage alla stazione di Bologna nell’agosto 1980, con 85 morti e 200 feriti.
Sul piano internazionale cresce la tensione tra Est e Ovest, specie sul problema dei missili installati in Europa. Per contro, si sviluppa un forte movimento per la pace, anche in Italia.
Nell’agosto 1980 esplode in Polonia la ribellione dei lavoratori, che si organizzano in un sindacato autonomo e del tutto nuovo: è il momento di Solidarnosc, che viene duramente represso dal generale Jaruzelski ma getta un seme che alla fine del decennio fruttificherà in un processo di liberazione contagioso.
Nel 1989 crolla il mondo comunista: la “Perestroika” di Michail Gorbaciov (salito al potere nel 1985) non era bastata a tenere insieme, al prezzo di inedite aperture democratiche, il traballante impero sovietico e i suoi satelliti. L’evento simbolico più forte è la caduta del Muro di Berlino, premessa alla riunificazione della Germania che avverrà l’anno dopo; ma cade tutta la “cortina di ferro”, gli ex paesi comunisti iniziano un difficile percorso verso la democrazia. È anche la fine della “guerra fredda” e si annuncia una nuova era nelle relazioni internazionali. Ma non saranno tutte rose e fiori, come si vedrà.

ANNI ’80 – STORIA DELLA FIM

LE POLITICHE SINDACALI

Per la Cisl due sono i problemi prioritari agli inizi degli anni Ottanta: l’occupazione e l’inflazione. La Fim è profondamente identificata con la linea della confederazione:
· per l’occupazione, la Cisl propone la riduzione dell’orario di lavoro e la costituzione del “Fondo di solidarietà” (quest’ultimo fatto proprio nel luglio 1980 dalla federazione unitaria, ma fortemente osteggiato dal Pci e dai suoi militanti iscritti alla Cgil);
· contro l’inflazione la Cisl propone (ipotesi Tarantelli, aprile 1981, poi ratificata dal congresso confederale dell’ottobre successivo) la predeterminazione e il rallentamento della contingenza;
· la Cisl parla inoltre di “nuove frontiere della solidarietà e dell’uguaglianza” – i senza lavoro, gli emarginatì, le famiglie monoreddito, lo stato sociale – e propone una coerente politica di tutti i redditi.
Il 22 gennaio 1983, dopo un grande travaglio nella federazione unitaria per le difficoltà della componente comunista, si arriva ad un accordo generale mediato dal ministro del lavoro Scotti: viene alleggerita la contingenza, si dà via libera ai contratti, c’è una sia pur limitata riduzione dell’orario di lavoro, si abbozza una riforma del mercato del lavoro, c’è l’impegno a misure dì sostegno all’occupazione. È l’inizio della politica di “concertazione”, sostenuta soprattutto dalla Cisl.
Ma il Pci, che è all’opposizione, la osteggia radicalmente e fa pesare questa posizione dentro la Cgil. Tant’è vero che alle trattative per la verifica dell’accordo di gennaio, svoltesi a cavallo tra il 1983 e il 1984, pur essendo stato redatto unitariamente un protocollo di intesa, la componente comunista della Cgil provoca una situazione di stallo del negoziato. Il punto di dissenso è identificato nel taglio di due punti di scala mobile; in realtà il contrasto è più generale, è politico, l’opposizione comunista al governo Craxi (entrato in carica nell’estate 1983) è radicale.
Lo scarto tra i contenuti dell’accordo (lotta all’inflazione, politica dei redditi, misure per l’occupazione) e l’opposizione politica è tale che per un sindacato autonomo come la Cisl si impone la scelta a favore dei contenuti, peraltro già definiti unitariamente. Per questo la Cisl, insieme alla Uil e alla componente socialista della Cgil, si dichiara favorevole a un decreto che rende operanti quei contenuti, sui quali c’è il consenso della maggioranza del sindacato. È il 14 febbraio 1984: un tornante nella storia recente del sindacalismo italiano (passato alla storia come “notte di san Valentino”).
Il Pci e la sua componente nella Cgil promuovono un referendum per recuperare i due punti di scala mobile. È guerra aperta nel sindacato e nella sinistra. La componente comunista della Cgil arriverà a organizzare da sola una maximanifestazione nazionale a Roma (marzo 1984), di grande impatto emotivo (il TG3 – allora chiamato “Telekabul” – la trasmette in diretta) ma di scarso risultato politico.
La Fim è in prima linea con la Cisl nella difesa dell’accordo, attestata sulla trincea più difficile, quella dei metalmeccanici, dove più aspra è l’opposizione all’accordo e più frequente l’esposizione a numerosi episodi di intolleranza.
Intanto l’inflazione scende, i redditi dei lavoratori risultano tutelati in termini reali. Il referendum, che si svolge il 9 e 10 giugno 1985, è una secca sconfitta per il Pci (i “no” hanno il 54,3% dei voti) e per la sua linea intransigente.

CONTRATTAZIONE IN CRISI

Nel mondo dei metalmeccanici, agli inizi degli anni Ottanta c’è il caso Fiat. Ai massicci interventi di cassa integrazione e di licenziamento annunciati nell’estate il sindacato risponde con la lotta frontale. Qualcuno parla persino di occupazione della Fiat. Scendono in piazza anche alcune migliaia di “capi” contro il sindacato (14 ottobre 1980, la celebre “marcia dei quarantamila”, che poi erano molti di meno).
La lotta frontale non regge. L’accordo, raggiunto all’alba del 15 ottobre, incontra dure contestazioni tra i lavoratori ma viene approvato a maggioranza. Si apre un vasto dibattito dentro il sindacato, sui propri errori e ritardi nell’affrontare i processi di ristrutturazione. Entrano in crisi le relazioni industriali alla Fiat e con gran parte dell’industria privata.
Tuttavia il ripensamento del sindacato dà anche i suoi frutti, poco alla volta si riprende a trattare anche dentro la Fiat: l’accordo dell’ottobre 1983 sul rientro dei cassintegrati e le misure di ricollocazione o di esodo incentivato per chi non rientra, segna una ripresa del dialogo, per quanto difficile.
Per restare alla Fiat, è del 1986 l’acquisizione dell’Alfa Romeo: in pratica, la Fiat diventa l’unico produttore nazionale del settore auto. È anche il primo grande passo dell’uscita dello stato dalla gestione diretta della produzione. È un passaggio che pone parecchi problemi al sindacato, e non sono poche le opposizioni a questo processo. Tuttavia la Fim, fedele al suo “stile”, tenta di vedere realisticamente insieme ai problemi (soprattutto occupazionali) anche le opportunità e i lati positivi di un processo peraltro irreversibile, dentro al quale si tratta di ricostruire un nuovo tessuto di relazioni sindacali.
In grave difficoltà appare anche la contrattazione nazionale. Significativa è la vicenda del contratto del 1983. Malgrado l’accordo interconfederale del gennaio 1983, che avrebbe dovuto spianare la strada ai contratti, la Federmeccanica gioca la carta dell’intransigenza (Intersind e Confapi hanno già firmato). Finalmente, ai primi di settembre del 1983, anche il contratto con i privati è firmato grazie alla mediazione del ministro del lavoro, dopo un lungo travaglio dentro la Flm. Il punto più problematico è l’esiguità del risultato in tema di riduzione dell’orario, sul quale la Fim aveva concentrato il suo impegno, mentre gli aumenti salariali non si discostano sostanzialmente dalle richieste della piattaforma.
Il contratto del 1987, firmato in gennaio, se non segna grandi novità, porta tuttavia un’ulteriore riduzione di orario di 16 ore annue: a giudizio della Fim, non è un grande risultato quantitativo, ma è positivo l’aspetto qualitativo: ora le riduzioni sono uguali per tutti, certe (cioè “godibili”) e “pulite” (cioè senza contropartite). Nel commentare l’esito della vicenda la Fim individua con lungimiranza due temi destinati a porsi al centro delle politiche sindacali: la futura contrattazione aziendale non potrà più essere una rivalsa per recuperare i “buchi” del contratto nazionale, ma andrà preparata con grande rigore e attenzione alle esigenze vere dei lavoratori; la flessibilità sarà un tema dominante e il sindacato dovrà essere capace di “governarne” le forme, gli effetti, le ragioni di scambio.
Appunto, “governare”: ormai sono emerse alla luce del sole diverse concezioni della contrattazione, tra loro irriducibili. Si è ad una svolta e la Fim preme per realizzarla celermente, superando un’idea esclusivamente conflittuale della contrattazione per maturare un’impostazione più tesa a gestire i cambiamenti nell’interesse dei lavoratori.
È così che entra in scena il tema della partecipazione, un’idea strategica che la Fim condivide con la Cisl e sulla quale scommette la propria rinnovata identità, scontrandosi continuamente con opposizioni e resistenze presenti soprattutto nella Fiom.
Non è solo una battaglia culturale: già verso la fine degli anni Ottanta si profilano accordi aziendali nei quali si sperimentano nuovi strumenti definiti e gestiti in comune con le aziende per legare gli aumenti salariali agli andamenti aziendali. In questo senso vanno alcuni importanti accordi stipulati tra il 1988 e il 1989: ad esempio in Fiat (con l’opposizione della Fiom che però ci ripensa e accetta i contenuti dell’accordo nel gennaio 1990: un caso destinato a ripetersi), poi in Olivetti, Italtel, Aeritalia, Ilva e infine in Zanussi, dove il sistema partecipativo raggiungerà un elevato livello di formalizzazione, anche se in un contesto problematico.

FINE DELLA FLM

La conclusione del rinnovo del contratto nazionale nell’estate 1983 segna una data importante: la fine, in pratica, della Flm. Fim, Fiom e Uilm per approvare la mediazione Scotti si riuniscono separatamente e con motivazioni separate accettano la mediazione (la Fim è stata a un passo dal rifiutare da sola, giudicando l’ipotesi di accordo insoddisfacente per ciò che riguarda orari e flessibilità: su questo punto, Fiom e Uilm avevano concesso troppo e “aggirato” la Fim).
La rottura del 1984 sull’accordo “di San Valentino” fa il resto. Non poco peso hanno anche le intolleranze di cui i dirigenti e i militanti Fim sono stati bersaglio durante la battaglia per la difesa dell’accordo: sono venute meno le condizioni dell’unità, essendosi già rivelate difficili quelle di una “coesistenza pacifica”.
Da allora la politica sindacale delle tre organizzazioni diviene sempre più separata. Si può dire che ciascuna riprende in mano la propria sovranità decisionale. L’unità possibile resta una unità d’azione, che si sostanzia soprattutto in piattaforme e accordi unitari (significativi sono i due referendum sulla piattaforma e sull’accordo per il contratto nazionale 1987, che esprimono largo consenso a Fim, Fiom e Uilm pur con estese aree di dissenso). Se resta l’unità d’azione, da verificare nei fatti, volta per volta, l’evoluzione in senso pluralistico è netta. I conflitti del 1984 non fanno che accelerare un processo inevitabile.
A giudizio della Fim e della Cisl, la caduta di autonomia e il divaricarsi delle concezioni sindacali rendono inevitabile quest’esito. Così la Flm cessa di esistere anche come sigla (salvo sul piano internazionale, ma anche qui ci sono difficoltà), si separano i bilanci, scompaiono le sedi unitarie. La sede nazionale viene divisa: dall’unità si passa alla coabitazione di tre organizzazioni sovrane in casa propria.
Un punto molto delicato è quello delle rappresentanze sindacali aziendali. Anche qui la Fim preme sull’acceleratore per una ridefinizione, indicando una serie di criteri: elezioni per “aree” e non più per gruppi omogenei (anche perché l’organizzazione interna alla fabbrica va cambiando), garanzie di rappresentanza a tutte le componenti sindacali e sociali presenti in fabbrica, ruolo primario delle organizzazioni nel presentare i candidati.
Ai primi del 1986 si arriva a definire un regolamento nazionale, che accoglie queste istanze, ma si rivela ben presto insufficiente. La definizione di regole di democrazia e di rapporti tra organizzazioni rimane così un problema aperto.

NEL SINDACATO INTERNAZIONALE

Malgrado la crisi dei rapporti unitari, nei primi anni Ottanta giunge a maturazione il processo di pieno inserimento dei tre sindacati metalmeccanici italiani, sotto la sigla Flm, nel sindacalismo democratico internazionale: l’adesione della Flm alla Fism, la Federazione internazionale dei sindacati metalmeccanici.
Non è stato un processo né lineare né facile: la Cgil e la Fiom in passato erano state affiliate al sindacato internazionale di “obbedienza sovietica”, poi ne erano uscite, senza però accedere a nuove affiliazioni (la Cisl internazionale e la Fism erano ancora viste come un frutto della “guerra fredda”); c’erano molte resistenze interne da superare per entrare in una compagine sindacale internazionale una tempo considerata “serva del capitalismo”; ma c’era anche da vincere l’opposizione di importanti sindacati esteri che non vedevano di buon occhio l’entrata nella Fism di un’organizzazione con all’interno una forte componente comunista. L’obiettivo viene raggiunto nel 1981 grazie a un paziente lavoro “diplomatico”, che ha visto un forte impegno soprattutto della Fim, le resistenze nella Fiom vengono superate e la Flm entra così nella Fism. Questa scelta sarà oggetto di attacchi da settori del Partito comunista, anche dalle pagine dell’“Unità”. Ma è un evento di grande importanza, che segna l’abbattimento di una barriera politica e ideologica.
La Fim comunque non rinuncia a proprie iniziative sul piano internazionale, sviluppando relazioni bilaterali con vari sindacati. Particolarmente intense sono quelle con i metalmeccanici francesi della Cfdt e con la tedesca IG Metall, specie sul tema della riduzione dell’orario di lavoro.
Un’iniziativa di autentica solidarietà politica e sindacale, destinata a dare frutti assai concreti, è l’organizzazione nel 1987 di una campagna di sottoscrizione, insieme all’Iscos Cisl, per finanziare la costruzione e l’avvio di una scuola sindacale dei metalmeccanici della Cut brasiliana (“Solidarietà non è una parola. Una scuola sindacale in Brasile è un fatto”: così lo slogan della campagna).
Nell’ambito della sua azione internazionale la Fim è in prima linea nella partecipazione al grande movimento pacifista dei primi anni Ottanta, sviluppatosi con l’inasprirsi delle tensioni tra est e ovest in seguito all’installazione dei missili in Europa. La Fim non si limiterà a manifestare, ma cercherà di sviluppare contenuti propriamente sindacali, impegnandosi sul terreno della riconversione della produzioni belliche in produzioni civili.

L’EVOLUZIONE DELLA FIM

Gli anni Ottanta significano per la Fim un periodo di intensa revisione culturale e organizzativa. Fin dalla fine del 1979 si prende atto che il mondo del lavoro è cambiato, più articolato, privo di una centralità e richiede nuove strategie di rappresentanza (assemblea organizzativa di Vico Equense, dicembre 1979).
Per sostenere la propria impostazione sindacale, la Fim si rende conto di dover irrobustire l’organizzazione e dotarla di una profonda e diffusa identità.
Si è già accennato alla decisione di costituire un proprio autonomo centro di formazione, con al decisione del Consiglio generale dell’aprile 1979. La decisione è messa in pratica nel giro di nemmeno tre anni: agli inizi del 1982 comincia le sue attività il Romitorio di Amelia (vicino a Terni), dedicato a Daniele Serratoni, un dirigente della Fim lombarda morto giovanissimo nel 1979.
L’inaugurazione ufficiale avviene il 29 ottobre 1982, con una festa e una originale e divertente tavola rotonda nel teatro di Amelia nella quale, guidati da Bruno Manghi, Beniamino Placido, Sergio Devecchi e Duccio Demetrio discutono sul “sindacalese”.
Il Romitorio accoglierà maestri di altissimo profilo: ricordiamo innanzitutto gli indimenticabili Federico Caffè e Fausto Vicarelli, e poi Vittorio Foa, Gianni Mattioli, Guido Romagnoli, Ettore Santi… e tanti altri.
Sempre nel 1982 la Fim comincia a pubblicare un proprio organo di stampa: “Lettera Fim”, dapprima come agile foglio destinato ai delegati e agli iscritti, divenuto poi agli inizi degli anni Novanta rivista di cultura sociale e sindacale.
I problemi posti dalle ristrutturazioni e dalle innovazioni vengono affrontate dalla Fim con spirito pragmatico, vedendone anche le opportunità positive. Un sindacato, dice la Fim, non può essere solo conflittuale, deve darsi anche una cultura e strumenti di gestione dei cambiamenti.
A guidare questa linea, proprio nel mezzo della crisi interna alla Flm nel corso della vertenza contrattuale del 1983, è chiamato Raffaele Morese, eletto in quei giorni segretario generale della Fim. Franco Bentivogli entra in segreteria confederale, per dirigere le politiche sociali della Cisl.
In una serie di iniziative seminariali la Fim via via affronta i temi dell’accumulazione, dell’inflazione e della politica dei redditi, delle politiche industriali di fronte all’innovazione. L’attività di formazione alimenta questa “riconversione culturale”, sulla quale si innesterà l’elaborazione e, quindi, la pratica della partecipazione.
Un punto programmatico della Fim resta la riduzione dell’orario di lavoro. Lanciata già al decimo congresso (Pesaro, 21-25 settembre 1981), la parola d’ordine delle 35 ore diventa il “leitmotiv” delle politiche contrattuali della Fim negli anni Ottanta. Con il convegno su questo tema dell’ottobre 1984, organizzato insieme alla IG Metall tedesca, si apre una campagna di massa che ha larga eco anche nell’opinione pubblica, sotto lo slogan “lavorare tutti, vivere meglio”. La margherita delle 35 ore, logo della campagna, si impone un po’ alla volta come nuovo simbolo della Fim.
I conflitti del 1984-85 sulla scala mobile all’interno del sindacato sono una prova difficile per la Fim, che sulla frontiera della difesa dell’accordo di “San Valentino” ha messo in gioco la propria consistenza organizzativa, per affermare il principio dell’autonomia e della coerenza sindacale. Nell’immediato paga in termini di iscritti, ma consolida la propria identità e getta le basi per una ripresa delle adesioni.
Nell’assemblea organizzativa di Brescia (maggio 1984) la Fim decide di costruire propri riferimenti organizzativi nelle fabbriche (i collettivi di fabbrica), con responsabili sia per l’organizzazione, sia per i servizi agli iscritti; al tempo stesso devono essere accelerati i tempi per la ripresa del tesseramento di organizzazione. Le impostazioni di Brescia saranno poi riprese e sancite dall’undicesimo congresso (Sirmione, 19-21 giugno 1985).
Viaggiando verso la fine degli anni Ottanta, la Fim esce finalmente dall’emergenza irrobustita organizzativamente, più attrezzata culturalmente, confermata dal tesseramento come organizzazione di massa. Lo constata l’assemblea organizzativa di Acireale (9-12 giugno 1987): la Fim può contare su un corpo di iscritti e attivisti fortemente motivati e convinti, non sospinti da pressioni di partito, “reclutati” nello spazio più difficile, quello della categoria dei metalmeccanici, dove più aspro era stato il conflitto tra le componenti sindacali e più pesantemente avevano inciso i processi di ristrutturazione, le espulsioni di manodopera, gli interventi della cassa integrazione.
Di tutto ciò dà conto nella relazione al dodicesimo congresso (Roma, 30 maggio-2 giugno1989) il segretario generale Raffaele Morese, che di lì a poco (settembre 1989) andrà in segreteria confederale per essere sostituito alla guida della Fim da Gianni Italia. Il congresso ha un tema obbligato, annunciato dallo slogan: “Partecipazione, la scelta vincente”. Secondo la Fim questo è l’orizzonte strategico futuro per tutto il sindacato: partecipazione non solo come atteggiamento, ma come complesso di regole che presiedono a un sistema di relazioni nei quali i partner interloquiscono, scambiano, magari confliggono, senza confusione di ruoli, nel pieno rispetto della rispettiva autonomia e nella concomitante assunzione di responsabilità.

ANNI ’90 – SCENARIO

L’ultimo decennio del XX secolo si apre su scenari di guerra. Si comincia con la “guerra del Golfo” nel gennaio 1999, si prosegue per tutto il decennio con le guerre civili nella ex Jugoslavia, ultima quella in Kossovo nel 1999 con l’intervento della Nato che bombarda la Serbia. All’iniziativa della Nato partecipa anche l’Italia guidata da un governo di centro-sinistra: è uno shock per l’opinione progressista e per quella cattolica, tradizionalmente pacifiste. Il decennio si chiude con il dramma palestinese: tra Israele e i palestinesi di Arafat è ormai guerra aperta, il faticoso processo di pace pare definitivamente compromesso.
Continua il processo di dissoluzione dell’ex Unione Sovietica, con continui conflitti tra il governo di Mosca e le repubbliche periferiche, mentre gli altri paesi dell’Europa centrale e orientale evolvono pacificamente verso la democrazia. (se si eccettua il caso dell’ex Jugoslavia). Il fatto più importante è la riunificazione della Germania (3 ottobre 1990), che alla fine del decennio riporta la capitale a Berlino.
Nell’Europa occidentale avanza il processo di integrazione. Il 7 febbraio 1992 viene firmato il trattato di Maastricht: la vecchia Comunità europea (Cee) diventa Unione europea (Ue), nella quale circolano liberamente merci, lavoro, risorse finanziarie. Il trattato fissa ai paesi membri le condizioni per l’ingresso nell’area della moneta comune, l’Euro, che entrerà in funzione il 1° gennaio 1999.
Nell’economia mondiale regna la “globalizzazione”: l’interdipendenza tra le economie è sempre più stretta, lo sviluppo delle tecnologie della comunicazione gonfia il ruolo degli scambi finanziari, minacciando la sovranità degli stati e approfondendo le disuguaglianze nel pianeta, sollevando ampi movimenti di protesta (il “popolo di Seattle”).
L’Europa e ancor più l’Italia stentano a reggere il passo con l’economia degli Stati Uniti che, sotto la presidenza Clinton, attraversa un periodo di forte crescita. In Europa la prima parte degli anni Novanta è all’insegna della stasi, solo nella seconda metà la locomotiva ricomincia a muoversi, anche se l’Italia partecipa alla crescita in misura più rallentata. Ma la disoccupazione rimane sempre alta.
Sul piano politico, a metà del decennio si assiste al prevalere nei paesi europei più importanti di governi di sinistra o di centro-sinistra, in Gran Bretagna, Francia, Germania e anche in Italia.
In Italia è intanto avvenuta una rivoluzione. Già alla fine degli anni Ottanta si affacciano fenomeni politici nuovi, come la Lega, che conquista ampi consensi nell’Italia del Nord, rivendicando un radicale federalismo (fino alla minaccia di secessione), spesso condito con accenti razzisti.
Nel 1992 scoppia Tangentopoli: viene sottoposta a giudizio la diffusa corruzione che lega ambienti politici e mondo dell’economia. Sono travolti i principali partiti di governo, Psi e Dc, e i loro leader (Bettino Craxi si “esilia” in Tunisia, dove muore il 19 gennaio 2000). Si dissolve il vecchio sistema politico (“prima Repubblica”): i socialisti e i laici minori scompaiono dalla scena politica, la Democrazia cristiana si frantuma in più formazioni, che si distribuiscono tra destra e di sinistra. Nel 1984 “scende in campo” Silvio Berlusconi: nasce Forza Italia. Il partito neofascista Msi evolve verso una linea liberaldemocratica di destra e diventa Alleanza nazionale.
Evoluzione anche nella sinistra, solo marginalmente colpita da Tangentopoli (a parte il Psi). Il Pci, incalzato dal crollo del comunismo, cambia nome in Partito democratico della sinistra e poi Democratici di sinistra, assumendo il simbolo della quercia. Una parte dei comunisti non ci sta e dà luogo a Rifondazione comunista, che poi si dividerà in due formazioni, l’una più radicale (leader Fausto Bertinotti) e l’altra più “governativa” (leader Armando Cossutta). Sulla sinistra si collocano i Cristiano-sociali di Pierre Carniti, più verso il centro il Partito popolare, guidato inizialmente da un altro ex leader della Cisl, Franco Marini. La novità più importante è la nascita dell’Ulivo nell’area di centro-sinistra, il cui leader storico è Romano Prodi.
Il sistema elettorale diventa parzialmente maggioritario con il referendum del 18 aprile 1993. Nelle elezioni del marzo 1994 prevale il polo di destra guidato da Berlusconi; si forma un governo di centro destra con Forza Italia, Alleanza nazionale e Lega, che incontra forte opposizione dei sindacati, soprattutto sul tema delle pensioni. Il governo cade agli inizi del 1995 per il voltafaccia della Lega (“ribaltone”) e si forma un governo “tecnico” capeggiato da Lamberto Dini. Nelle elezioni anticipate dell’aprile 1996 vince la coalizione dell’Ulivo, capo del governo di centro sinistra è Romano Prodi. Ma il centro sinistra è debole e diviso, nella stessa legislatura ci saranno altri due cambi di governo prima con Massimo D’Alema e poi con Giuliano Amato primi ministri. Con questi governi prosegue la politica di concertazione con i sindacati e gli imprenditori.
In Italia, sul piano economico e sociale, dominano i problemi dei conti pubblici, della crescita, dell’occupazione e delle sorti dello stato sociale. A prezzo di manovre economiche impopolari, i governi di centro sinistra riescono ad avviare il risanamento e a rientrare nei parametri di Maastricht, cosicché l’Italia è tra i primi paesi a far parte dell’area dell’Euro.
Importante è il contributo del sindacato al risanamento e alla stabilità sociale, soprattutto con lo sviluppo della concertazione che avrà il suo punto più alto negli accordi del luglio 1993 e troverà ulteriori conferme con i governi di centro-sinistra. Nel 1995 viene finalmente varata la riforma delle pensioni grazie all’impegno propositivo del sindacalismo confederale.
Verso la fine del decennio vi sono segni di ripresa economica, ma la disoccupazione rimane alta anche se c’è una modesta crescita dei posti di lavoro, in gran parte con contratti “atipici”, a tempo determinato, e così via: è la nuova frontiera del lavoro, quella della crescente flessibilità imposta dall’aspra competizione nell’era della globalizzazione.
Sul piano industriale è un’epoca di rimescolamenti, soprattutto grazie ai processi di privatizzazione. Escono di scena aziende come Olivetti; la siderurgia pubblica passa in mani private, con forti perdite occupazionali; dal 2000 non c’è più l’Iri, si privatzza anche Finmeccanica. Nel 1999 avviene l’alleanza industriale tra Fiat e General Motors.
Un problema sociale emergente, e sempre più acuto, è quello dell’immigrazione. Dilaga l’immigrazione clandestina, con lo sbarco sulle coste del Mezzogiorno di moltitudini di diseredati provenienti dai Balcani e da paesi del Medio Oriente, taglieggiati da spietate mafie che ne organizzano il trasporto.
Resta gravissima l’emergenza della criminalità organizzata (ricordiamo nel 1992 l’assassinio a Palermo dei magistrati Falcone e Borsellino), specie nel Sud, con lo sviluppo di fenomeni mafiosi nuovi e diffusi. Verso la fine del decennio si rifanno vive le Br, che il 20 maggio 1999 assassinano il professor Massimo D’Antona, giurista del lavoro molto vicino al sindacato e collaboratore del ministro del lavoro Bassolino.
Il decennio chiude con il grande Giubileo del 2000 indetto dal Papa Giovanni Paolo II, che avrà un momento particolarmente significativo in agosto con l’afflusso di oltre un milione di giovani a Roma.

ANNI ’90 – STORIA DELLA FIM

L’ETÀ DELLA CONCERTAZIONE

Malgrado le ripetute analisi sul declino del sindacalismo confederale, negli anni Novanta Cgil, Cisl e Uil, per quanto divise su molti punti, si affermano come protagoniste sulla scena sociale e politica, proprio nel momento in cui i partiti, sotto i colpi di Tangentopoli, si frantumano o riducono il loro peso e comunque sono costretti a non indolori revisioni ideologiche e organizzative.
Non è che i sindacati confederali non abbiano problemi, specie nei settori più colpiti dalla disoccupazione che si riflette in una diminuzione di iscritti. E tuttavia restano di gran lunga le organizzazioni più rappresentative del mondo del lavoro dipendente. È importante, da questo punto di vista, l’intesa del 1° marzo 1991 tra Cgil, Cisl e Uil, che definisce le regole per le Rappresentanze sindacali unitarie (Rsu) nei luoghi di lavoro. I contenuti dell’intesa saranno ratificati dall’accordo del 23 luglio 1993. Cgil, Cisl e Uil certificano sul campo la loro rappresentatività: nelle elezioni delle Rsu prevalgono di gran lunga i candidati confederali.
Forte di questo consenso, il sindacato si afferma come soggetto politico autonomo, capace di proporre e incidere positivamente sulle politiche sociali, attraverso un confronto con le rappresentanze degli imprenditori e con le istituzioni. È la pratica della concertazione, cioè del confronto e dello scambio tra i soggetti che, ciascuno secondo il proprio ruolo nella società, hanno titolo e legittimità per contribuire alle politiche economiche e sociali.
Il punto più alto di questa strategia è raggiunto con l’accordo del 23 luglio 1993, preparato da un analogo accordo di un anno prima (luglio 1992). Con quell’accordo:
· scompare la “scala mobile” e viene restituita alla contrattazione tra le parti sociali la politica salariale;
· viene stabilizzata la struttura della contrattazione di categoria, articolata sui due livelli nazionale e aziendale:
· viene varata la politica di tutti i redditi, per controllare consensualmente le dinamiche sia delle retribuzioni che dei prezzi;
· vengono legittimate le Rsu, definite dall’intesa confederale del 1991, come soggetti contrattuali nei luoghi di lavoro;
· si promuovono forme di partecipazione nelle aziende.
Su questa base la concertazione si sviluppa per tutto il decennio, attraverso confronti e accordi, tra i quali va ricordato il Patto di Natale del 22 dicembre 1998, che contiene vantaggi sia per i lavoratori e le loro famiglie, sia per il sistema produttivo e promuove politiche di sviluppo, con particolare riferimento al Mezzogiorno.
Un problema cruciale di questi anni è quello delle pensioni. Gli andamenti demografici, con l’invecchiamento progressivo della popolazione, prospettano un crollo del sistema pubblico di previdenza, già gravato da pesi indebiti e da una struttura irrazionale.
Sulle pensioni, minacciate da un progetto di riforma drastico e iniquo del governo Berlusconi, Cgil, Cisl e Uil attuano una delle più forti mobilitazioni del dopoguerra che si conclude con la grande manifestazione a Roma dell’11 novembre 1994. Caduto il governo di destra all’inizio del 1995, i sindacati confederali sono comunque convinti che una profonda riforma è necessaria e passano dalla protesta alla proposta, raggiungendo un’intesa.
La proposta di Cgil, Cisl e Uil viene sottoposta a referendum tra i lavoratori. I dissensi ci sono, soprattutto tra i metalmeccanici, per molti dei quali è più acuto il problema delle pensioni di anzianità destinate a essere “ritoccate”. La Fim è mobilitata in modo compatto per l’approvazione dell’intesa, alla quale però la maggioranza dei metalmeccanici dice di no. Tuttavia l’insieme dei lavoratori dice sì a larga maggioranza (65%).
È così aperta la strada per l’approvazione in Parlamento della legge di riforma delle pensioni 335 dell’8 agosto 1995, i cui contenuti rispecchiano le proposte sindacali. Con la riforma si attua un graduale passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, si comincia a mettere un po’ di ordine nella giungla delle pensioni, avviando anche una armonizzazione tra i vari sistemi, si gettano le prime basi per lo sviluppo di un sistema di previdenza complementare. Il risultato più importante è la salvaguardia del sistema previdenziale pubblico, oggetto di ripetuti attacchi anche a livello internazionale. È inoltre un successo di Cgil, Cisl e Uil, che sono riuscite ad affermare il loro ruolo decisivo attraverso un’azione propositiva.
Il sindacalismo confederale continua anche a marcare una forte presenza sul terreno civile, per la democrazia e l’unità del paese. Il 20 settembre 1997 centinaia di migliaia di lavoratori scendono in piazza con Cgil, Cisl e Uil a Milano e Venezia a difesa dell’unità del paese per un federalismo solidale, contro i propositi secessionisti della Lega e per indicare un’alternativa alla chiusura egoistica che serpeggia nelle zone più ricche d’Italia.
Malgrado il grande ruolo giocato sul piano politico e i successi unitariamente conseguiti, nella seconda parte degli anni Novanta le vie di Cgil, Cisl e Uil vanno sempre più divaricandosi. Le proposte avanzate ripetutamente dalla Cisl per compiere un passo decisivo verso l’unità cadono nel vuoto, soprattutto per l’opposizione della Cgil.

LA CISL E LA POLITICA

In questi anni la Cisl balza in primo piano sulla scena italiana, grazie anche al dinamismo del segretario generale Sergio D’Antoni, che la dirige per tutto il decennio, ma soprattutto per la capacità propositiva e la ricerca di soluzioni contrattuali innovative. In particolare la Cisl si riconosce nella politica di concertazione, che ha cominciato a teorizzare e promuovere fin dai primi anni Ottanta.
Un problema che anima un profondo dibattito nella confederazione è quello del rapporto con la politica, che la Cisl comincia a porre in modo nuovo, mettendo “i piedi nel piatto”.
Del tutto nuova, rispetto alla sua tradizione, è la decisione della Cisl nelle elezioni del 1996 di schierarsi apertamente a favore dell’Ulivo. Successivamente, anche per le vicende che hanno portato all’appannamento della proposta dell’Ulivo, la ricerca di interlocutori politici non trova sbocco, diventano sempre più difficili i rapporti con il governo di centro-sinistra.
D’Antoni affaccia l’ipotesi di un’iniziativa autonoma sul terreno della politica, con l’idea di una fondazione come luogo di elaborazione, proposta e aggregazione a carattere “pre-politico”, vale a dire non ancora partitico ma aperto a soluzioni nuove e di più diretto intervento della Cisl in politica.
Si accende la discussione nella Cisl, e la Fim vi partecipa consentendo sulla necessità di innovare il rapporto con la politica, sulla base dei contenuti e non degli schieramenti, ma salvaguardando con rigore l’autonomia dell’organizzazione e la libertà di scelta dei dirigenti e degli iscritti della Cisl.
Nel frattempo, dopo l’estate del 2000, D’Antoni passa ad altro impegno, cioè alla fondazione che aveva in progetto, e gli succede Savino Pezzotta.

LA CONTRATTAZIONE DI CATEGORIA

La strada per i contratti di categoria è tracciata dall’accordo del luglio 1993.
Prima di quella data, c’è il contratto del 1990: una vertenza difficile, protrattasi per otto mesi con 100 ore di scioperi e finita sul tavolo del ministro del lavoro Donat Cattin. La firma dell’ipotesi di accordo avviene all’alba del 14 dicembre su salario e orario e il 20 sulle parti normative. Non ci sono grandi risultati, ma la conclusione è considerata positiva, data la difficile situazione economica (tra l’altro, 16 ore di riduzione dell’orario in due tappe, aumenti non troppo distanti dalle richieste). Tra le novità, la vigenza contrattuale passa da tre a quattro anni, per due anni c’è l’impegno a sospendere la contrattazione integrativa aziendale. Però c’è insoddisfazione, e da più parti avanza la richiesta di referendum. Sarebbe una sconfessione del negoziato; Fim e Uilm non cedono, ma la Fiom è spaccata e non è pronta alla ratifica finale. Alla fine, anche la Fiom si decide e la ratifica definitiva avviene il 17 gennaio 1991.
Dopo il luglio 1993, la strada verso il contratto appare meno impervia. Si giunge così al contratto del 1994, firmato il 5 luglio senza un’ora di sciopero. Non è la sola novità. Viene interamente ridisegnato il sistema di relazioni industriali; nella nuova premessa, che sostituisce quella “storica” invariata dal 1962, viene esplicitamente assunto il metodo della partecipazione e si riconosce la funzione contrattuale in azienda delle strutture sindacali territoriali insieme alle Rsu. Sull’orario è importante non tanto l’aspetto quantitativo (sono consolidate le 39 ore settimanali), quanto il modo con cui viene trattata la materia, attraverso una flessibilizzazione contrattata. Ancora, un punto innovativo importante è l’impegno a realizzare un sistema di previdenza complementare. Nel complesso, questo contratto viene considerato come la prova che è possibile un rapporto costruttivo e innovativo fra le parti sociali.
Quello del 1994 è il contratto che inaugura, per i metalmeccanici, il modello definito nel luglio 1993. Da lì a due anni, infatti, è la volta del primo rinnovo per la parte salariale. Ma spira di nuovo aria di burrasca. Ci vorrà un anno, dalla presentazione della piattaforma alla firma, avvenuta il 4 febbraio 1997. Le ragioni sono molteplici: da un lato le resistenze degli imprenditori, tesi tra l’altro ad “assorbire”, in pratica a bloccare la contrattazione aziendale; dall’altra le nuove condizioni economiche e politiche, dovute al rapido ridursi dell’inflazione e allo sforzo imposto al paese per entrare nell’Euro. Quest’ultimo fatto, con il venir meno della possibilità di giocare sui cambi per “svalutazioni competitive”, ha tolto alle imprese italiane un tradizionale e troppo facile strumento per avvantaggiarsi sui mercato internazionali.
Comunque, la conclusione rispetta le priorità che alla vigilia della stretta finale la Fim aveva indicato come irrinunciabili: un aumento salariale sufficiente a mantenere il potere d’acquisto; il mantenimento dell’assetto contrattuale con i due livelli, quindi salvaguardia della contrattazione aziendale; l’introduzione di un fondo di previdenza complementare nel settore industriale metalmeccanico.
Quest’ultimo è il risultato più innovativo, al quale la Fim ha lavorato più di tutti, superando storiche diffidenze. Il 18 febbraio successivo alla firma del contratto è varato l’accordo con Federmeccanica, sulla cui base si costituisce il Fondo Cometa, che otterrà un rapido e clamoroso successo tra i lavoratori metalmeccanici (circa 330.000 aderenti, distribuiti in quasi 10.200 aziende, a ottobre 2000). Successivamente nascono anche Fondapi (per le piccole imprese affiliate a Confapi) e Artifond (artigiani).
Anche il rinnovo del contratto nazionale del 1999, firmato l’8 giugno 1999, viene raggiunto dopo una lunga fase conflittuale che culmina nella manifestazione nazionale a Roma del 14 maggio. È una manifestazione nuova, caratterizzata soprattutto da una grande presenza di giovani: tra di essi è visibilissima e vivace la presenza dei Giovani Fim.
Nei primi commenti, la Fim sottolinea alcuni aspetti innovativi di questo contratto, definito “il primo contratto della nuova generazione”. Più che gli aspetti di redistribuzione del reddito, esso tocca le regole e i diritti personali dei lavoratori. In particolare sulla gestione del tempo, che da ora può essere più “personalizzata”, soprattutto con l’introduzione della “banca delle ore”. Tra i diritti conquistati alcuni hanno un valore di “civiltà”, come le aspettative per ragioni di studio, familiari, di impegno nel volontariato. Quest’ultimo aspetto, insieme ad altri (su diritto allo studio, lavoro interinale, tempo determinato) rappresenta un risposta positiva a richieste sulle quali in particolare si erano impegnati i giovani. Viene inoltre arricchito il capitolo partecipazione, con la costruzione di un sistema di osservatori nazionali e regionali e di commissioni paritetiche, con la formazione in primo piano.
Sui nuovi diritti in materia di gestione del tempo di lavoro la Fim, che vi riconosce la realizzazione di un proprio “storico” punto programmatico, sviluppa una campagna informativa di massa, diffondendo sul tema uno strumento conoscitivo per tutti i suoi iscritti.
Un capitolo importante per la contrattazione nel settore è quello delle grandi ristrutturazioni, la più ampia delle quali è sicuramente quella che tocca il settore siderurgico, in gran parte pubblico (prima Italsider, poi Ilva), cronicamente affetto da sovracapacità produttiva. Con l’accordo del 12 marzo 1994 si avvia un processo di scorporo, privatizzazione, ristrutturazione. I costi sono alti: innanzitutto per l’occupazione, che viene drasticamente ridotta (gli stabilimenti si ridimensionano, alcuni – coma Bagnoli – chiudono); ma anche per le casse dello stato, per finanziare soluzioni socialmente accettabili per i lavoratori eccedenti.
Malgrado i continui attacchi da parte di Federmeccanica, la contrattazione aziendale ha un ampio sviluppo negli anni Novanta, con contenuti fortemente innovativi. È il periodo nel quale si diffonde ovunque il metodo partecipativo. I casi più noti sono quelli della Fiat e della Zanussi.
Alla Fiat una serie di accordi, dei quali il più importante è quello del 18 marzo 1996, si costruisce un sistema di partecipazione a livello di gruppo, di settori produttivi (auto, Iveco, eccetera) e di stabilimento.
Il nuovo stabilimento di Melfi, in Basilicata, è oggetto di accordi peculiari: quello “preventivo” del 1990 (scambio tra investimento al Sud e flessibilità nell’utilizzo impianti) e l’accordo sindacale costitutivo dell’11 giugno 1993 che definisce un sistema partecipativo compiuto e peculiare per questo stabilimento, con alcuni connotati decisionali (formazione, trasporti, conciliazione). La Fim sviluppa in questo contesto azioni di sensibilizzazione e proselitismo che hanno successo, in particolare a Melfi, dove è primo sindacato per iscritti e rappresentanza.
Alla Zanussi – poi Electrolux Zanussi dopo l’acquisizione da parte del gruppo svedese – si attua un sistema partecipativo considerato come il “modello” per la sua completezza e anche per la convinzione con cui l’azienda si è misurata su questo terreno. È una storia ormai più che decennale di accordi, culminati nel “Testo unico” del luglio 1997, che dà una quadratura “istituzionale” al sistema di relazioni industriali in Zanussi, introducendo tra l’altro il Consiglio di sorveglianza, che apre nuovi spazi per la conoscenza delle strategie aziendali.
Ma non tutto è liscio. Proprio alla Zanussi la conflittualità resta elevata, si è persino arrivati nell’autunno del 1996 a una “sospensione” del sistema partecipativo. Alla fine del 2000 la Fiat è l’unico dei grandi gruppi a non avere ancora rinnovato il contratto integrativo.
Insomma, la partecipazione non si presenta come una soluzione semplice, ma come una sfida difficile, che richiede continui approfondimenti e messe a punto. E che non elimina certo il conflitto, comunque fisiologico nei rapporti di lavoro in una società libera e democratica.
Le difficoltà sono anche nel sindacato e tra i lavoratori. Sia alla Fiat che alla Zanussi in due casi si è passati in un primo momento attraverso accordi separati con Fim e Uilm, mentre la Fiom aderiva solo successivamente. Alla Zanussi la maggioranza dei lavoratori ha respinto l’ipotesi di accordo aziendale raggiunto nel giugno 2000. La Fim, che aveva sostenuto quell’ipotesi, decideva di attuare un sondaggio tra i propri iscritti, per conoscere le ragioni dei lavoratori. L’accordo, modificato in alcune sue parti, è stato poi approvato alla fine di novembre.
Abbiamo citato i casi più emblematici, ma ormai il metodo partecipativo è pratica consolidata nelle relazioni tra sindacati e aziende, e ciò emerge nella intensa stagione di rinnovi dei contratti integrativi aziendali nel corso del 2000.
Un aspetto particolare, che acquista rilevanza proprio negli anni Novanta, è il crescente peso e ruolo delle donne nel lavoro metalmeccanico. Tra gli strumenti partecipativi, a livello sia nazionale che aziendale, un posto di rilievo hanno le commissioni sulle pari opportunità, che consentono alle donne di far valere le loro peculiari esigenze, a cominciare da quelle del rispetto della loro dignità e della promozione paritaria delle loro chances professionali.
Va ricordato che in questo decennio si sono moltiplicati gli strumenti legislativi in grado di supportare questo impegno delle donne nel sindacato: a cominciare dalla “storica” legge 125 del 1991 (“Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro”), passando per la legge 215 del 1992 (“Azioni positive per l’imprenditoria femminile”) e giungendo alla più recente legge 53 del 2000 sui congedi parentali (tanto per nominare i provvedimenti più importanti).
Non bisogna trascurare un settore, quello dell’artigianato, troppo spesso relegato in secondo piano, ma nel quale si concentra molta occupazione metalmeccanica. In questo settore il decennio 1990-2000 è molto importante soprattutto per le relazioni industriali: viene costruito un modello con il quale è possibile guardare a tutto il mondo delle piccole e piccolissime imprese, non solo all’artigianato. In tutte le regioni e a livello nazionale si afferma il sistema degli enti bilaterali, che rappresentano ormai una realtà considerevole dal punto di vista economico e sociale, con prestazioni annue che superano i 100 miliardi. Si sperimenta un sistema contrattuale originale su due livelli, nazionale e regionale, di categoria e confederale. La contrattazione regionale diventa un sistema che, pur incontrando difficoltà, costituisce un punto di riferimento importante per disegnare le relazioni sindacali del futuro in tutti i settori.

LA FIM VERSO IL 2000

Passate le bufere degli anni Ottanta, la Fim non è più sulla difensiva e si dedica ad affrontare con spirito innovativo i nuovi problemi del mondo del lavoro e del sindacato.
Ora è anche più libera da un grave problema che ne aveva tormentato la vita interna per tutto il decennio precedente e che riguardava una delle strutture più importanti, la Fim di Milano. La Fim milanese, guidata da Piergiorgio Tiboni, si era andata progressivamente isolando dal resto dell’organizzazione, conducendo una politica autonoma che era giunta ben oltre i limiti di un corretto dissenso democratico, fino a contrastare pubblicamente le decisioni assunte dell’insieme della Fim e addirittura a ricorrere alla magistratura contro accordi stipulati dall’organizzazione. In più, la struttura versava in un dissesto finanziario che aveva assunto dimensioni abnormi. Si giunge così alla dolorosa, ma inevitabile decisione di mandare a Milano come commissario Salvatore Biondo, della segreteria nazionale, che riannoda i fili con l’insieme degli iscritti e porta alla celebrazione di un congresso straordinario nell’ottobre 1991. La lista appoggiata dalla Fim nazionale, con una maggioranza dei due terzi, ha la meglio su una seconda lista presentata da alcuni dirigenti dell’organizzazione che, pur in dissenso con Tiboni, hanno assunto una posizione contraria al commissariamento. Sostenuta da questo consenso democraticamente verificato, il rinnovato gruppo dirigente può ricostruire “il corpo e l’anima” della Fim milanese e procedere al risanamento finanziario. Nel frattempo Tiboni con alcuni seguaci ha abbandonato la Fim e dato vita a un piccolo sindacato autonomo.
Giungiamo al tredicesimo congresso, che si tiene a Bormio dal 31 maggio al 4 giugno 1993. Lo slogan riflette la priorità sindacale di quel periodo, l’occupazione, e nello stesso tempo la partecipazione al travaglio civile e politico che l’Italia attraversa dopo il terremoto di Tangentopoli: “L’Italia è una Repubblica: rifondiamola sul lavoro”.
Il messaggio centrale è che il rinnovamento del paese non può avvenire se non nella valorizzazione del lavoro come perno della cittadinanza. Attorno a questo messaggio si articolano i temi più strettamente economici e sindacali. In particolare la Fim manifesta preoccupazione e attenzione per il problema del deficit pubblico, che tocca da vicino i lavoratori e il sindacato, e per quello dello stato sociale, oggetto di continui attacchi ma comunque bisognoso di una profonda riforma.
Il quattordicesimo congresso si tiene a Genova dal 12 al 15 maggio 1997. Lo slogan afferma: “il futuro è opportunità”. È un’affermazione ottimistica, di un’organizzazione che non si rassegna a lamentare la durezza dei tempi ma vuole individuare le opportunità di promozione sociale e umana dei lavoratori in un mondo in rapida trasformazione. La Fim si proietta verso il Duemila, ponendo al centro della sua attenzione l’evoluzione del mercato del lavoro e la necessità di rappresentarne le nuove diversità (“i lavori”). È in questa prospettiva che la Fim fa anche un bilancio delle proprie politiche: gli sviluppi della partecipazione, l’affermarsi della previdenza complementare, i problemi della ripartizione del lavoro e degli orari, le forme della rappresentanza e della democrazia sindacale (su questo porta un importante contributo al congresso il giurista del lavoro Pietro Ichino).
Nel congresso di Genova c’è anche il cambio della guardia al vertice della Fim: a Gianni Italia, che andrà a dirigere l’Iscos, l’Istituto della Cisl per la cooperazione internazionale, succede Pier Paolo Baretta, che alla fine del 1998 viene chiamato a far parte della segreteria confederale nazionale della Cisl. L’8 febbaio 1999 il Consiglio generale della Fim elegge come nuovo segretario generale Giorgio Caprioli.
Al di là delle scadenze congressuali e organizzative, la Fim sviluppa numerose iniziative culturali e seminariali sia al centro che in periferia. Ci limitiamo a ricordarne due, che hanno ottenuto ampia eco anche nell’opinione pubblica.
Il 23 febbraio 1993, a Milano, la Fim affronta con giuristi ed esperti di diverso orientamento il tema della rappresentanza e della democrazia sindacale, avanzando anche proprie proposte che aprono alla possibilità di un intervento legislativo di sostegno, e non sostitutivo, in questa materia. Dal seminario esce un libro delle Edizioni Lavoro, “Le regole del rappresentare”.
Il 20-21 gennaio 2000, a Roma, la Fim affronta in un convegno il problema del Mezzogiorno con lo slogan: “Ricominciamo dal Sud”. Nel convegno esperti del mondo accademico, ministeriali e sindacali si confrontano con le proposte avanzate dalla Fim sul piano delle politiche contrattuali e industriali, concepite “su misura” della situazione del Sud con opportune differenziazioni rispetto ad altre aree del paese. Il convegno ha un’ampia eco nell’opinione pubblica e apre una vivace discussione nel sindacato.

GLI SVILUPPI ORGANIZZATIVI E LA FORMAZIONE

Nel corso del decennio si svolgono tre importanti assemblee organizzative, ottava nona e decima (Chia Laguna in Sardegna, 28-31 ottobre 1991; Assisi, 3-5 luglio 1995; Rimini, 22-23 aprile 1999).
Si attua una vasta riorganizzazione del lavoro sindacale, con il collaudo delle “Macroregioni” e un ampio decentramento di responsabilità, specie nella politica contrattuale nei grandi gruppi e nella formazione. A Rimini è posto l’accento anche sulla necessità di ridefinire la figura del sindacalista come “agente di sviluppo” nel proprio territorio, specie nel Mezzogiorno.
Di particolare rilievo, sul piano organizzativo, è la crescita dei Giovani Fim. Nel 1994 la Federazione nazionale decide di tentare un intervento strutturato sui giovani, che approda alla creazione di uno spazio politico organizzativo specifico. Viene svolto un lavoro di formazione su vasta scala, al quale partecipano dal 1994 al 2000 più di 700 giovani, raccolti attraverso consulte nazionali e territoriali . Dall’esigenza di lavorare “a rete” è nato nel 1995 NGM, il Network Giovani Metalmeccanici, il primo sito sindacale su supporto internet.
In ogni provincia è attivo un Coordinamento giovani, nel quale essi si incontrano, discutono, mettono in comune le proprie esperienze perché siano rappresentate dalla Fim nelle proprie scelte politiche e sindacali. Tutti gli anni si svolge una Consulta nazionale, nella quale si propongono nuove iniziative. Ai giovani la Fim offre numerose opportunità di formazione, dall’azienda fino al campo giovani nazionale che si svolge ogni anno.
I giovani della Fim danno battaglia anche sul piano delle politiche contrattuali, per far entrare nelle piattaforme i contenuti che li interessano più da vicino, come nel contratto nazionale del 1999 (riduzione dell’anzianità per le aspettative, il diritto alla formazione e allo studio, permessi per il volontariato, riduzione della precarietà nei contratti a termine) e nella contrattazione aziendale.
Grazie a questo lavoro, sono cresciute le adesioni alla Fim e si è avuto un ringiovanimento sia degli iscritti che degli operatori sindacali.
Nella seconda metà degli anni Novanta la formazione, che aveva vissuto una fase di stanchezza, si rianima, all’insegna anche di un ampio decentramento, con la creazione di responsabili a livello macroregionale, regionale e territoriale; ciò rilancia il ruolo della commissione nazionale per la formazione.
Tra le iniziative di maggior rilievo, va menzionato innanzitutto nel 1997 un corso per dirigenti anticipatore degli eventi, dedicato ai riflessi dell’entrata nell’Euro sulle politiche sindacali. Progettato nel 1998, iniziato nel 1999 e da concludersi nel 2001 è il corso per dirigenti di ampio respiro denominato “Pom” (Programma operativo multiregionale), che impegna seicento dirigenti (trecento del Sud). Entrambe queste due iniziative sono state attuate con il sostegno di un finanziamento europeo.
Tra il 1999 e il 2000 è tornato dopo dieci anni di assenza il corso per formatori, dal quale sono usciti undici formatori territoriali, di cui dieci del Sud.
Il 2000 è anche l’anno del rilancio del Romitorio come struttura cardine della formazione nazionale con una nuova gestione, un rilancio per il quale si sono particolarmente impegnati, anche prestando lavoro manuale gratuito, i giovani della Fim. Nella storia della Fim il Romitorio ha un alto valore, non solo simbolico, e la nuova gestione è stata salutata con una festa il 16 settembre 2000.

L’IMPEGNO INTERNAZIONALE

Prosegue la politica unitaria di Fim, Fiom e Uilm con due ordini di problemi che dominano l’orizzonte: l’avvento dell’Unione europea e dell’Euro, i processi di mondializzazione.
Una novità, con risvolti molto concreti sul piano sindacale, è lo sviluppo dei Comitati aziendali europei (Cae), in attuazione di una direttiva europea, che consentono un intervento più specifico dei sindacati nelle imprese transnazionali di una certa dimensione. La Fim vi dedica particolare impegno, organizzando anche periodiche conferenze nazionali dei propri militanti che fanno parte dei Cae. Entra in scena così una nuova figura di “sindacalista europeo”, che si incontra con i propri colleghi di altri paesi, si confronta con loro e insieme a loro comincia a praticare un sindacalismo “continentale”.
Sempre a livello europeo, Fim Fiom e Uilm riescono ad affermare un emendamento nei programmi Fem (congresso del 1999) per l’avvio di un processo (chiamato “processo di Roma”, dal successivo seminario Fem tenutosi a Roma nel dicembre 1999) mirante alla costituzione di un vero sindacato europeo, al quale i sindacati nazionali dovrebbero cedere su determinati temi parte della loro sovranità.
Così in ambito Fism, nell’affrontare i problemi della mondializzazione, i metalmeccanici italiani propongono la creazione di un libro bianco sui comportamenti scorretti delle multinazionali; la proposta è fatta propria dalla Fism nel Comitato centrale del giugno 2000.
Oltre alla politica internazionale unitaria, la Fim prosegue nei suoi rapporti bilaterali, in particolare con i metalmeccanici brasiliani della Cut. Nel novembre 1999, a Belo Horizonte, la Fim partecipa alla prima conferenza sulla politica di formazione della Cut, e ha tutti i titoli per esserci, avendo promosso insieme all’Iscos fin dal 1987 la scuola sindacale “7 de Outubro”. Negli stessi giorni, e proprio in questa scuola, si svolge il seminario conclusivo di un progetto europeo di cooperazione iniziato nel 1997, promosso e gestito ancora una volta dalla Fim e dall’Iscos.
Infine, ancora in cooperazione con la Cut brasiliana, la Fim e l’Iscos hanno avviato nel 2000 una campagna di sensibilizzazione e di raccolta di fondi per combattere la piaga del lavoro minorile, dal suggestivo titolo “in Brasile fuoriclasse si nasce”, che sottolinea in particolare l’esclusione di milioni di bambini dall’istruzione e quindi da ogni possibilità di promozione sociale.
Durante la crisi del Kosovo, la Fim ha allacciato rapporti con il sindacato autonomo serbo Nezavisnost e con quello kossovaro Spmk, riuscendo a stabilire tra di essi un canale di comunicazione e relazioni di amicizia e collaborazione.

Saperne di più

“Non c’è una “storia della Fim”. Dobbiamo contentarci di saggi sparsi, di opere generali in cui la Fim è menzionata, di analisi di singole situazioni”. Questa premessa la scrivemmo su “Lettera Fim” n. 6 del 31 maggio 1987, in coda a una cronologia simile a questa. In più dovremmo aggiungere che diverse delle opere di seguito citate probabilmente non sono più in commercio e saranno reperibili solo in biblioteche, sindacali e non, presso amici, o altro.
Un libro “storico”, dedicato interamente alla Fim, è quello di Gian Primo Cella, Bruno Manghi, Paola Piva, Un sindacato italiano negli anni ’60: La Fim Cisl dall’associazionismo alla classe (ed. de Donato, 1972): vi si trovano una cronologia fino ai primi anni Settanta, un dibattito, un saggio di valutazione generale; il tutto risente del clima dell’epoca, quando pareva imminente l’unità sindacale ed era dominante nel sindacalismo industriale l’idea della “lotta di classe”. Ancora Manghi nel 1980 scrive un bel saggio, La Fim: una federazione in un sindacato di categorie, in un volume collettaneo pubblicato in occasione del 30° della Cisl (Analisi della Cisl, volume 1, tomo 2, Edizioni Lavoro 1980).
Sul periodo cruciale attorno al 1977 va citato di Franco Bentivogli, allora segretario generale della Fim, Il paradosso del calabrone (Nuove Edizioni Operaie, 1979).
Per il periodo dal 1982 a oggi dobbiamo citare noi stessi: attraverso le collezioni di Lettera Fim è possibile ricostruire le principali tappe della Fim Cisl e il loro contesto sociale, politico, sindacale.

Esperienze locali, figure emblematiche, testimonianze

Vi sono diverse ricostruzioni di situazioni locali. Nel secondo tomo di Itinerari sindacali. Momenti di storia della Cisl in fabbrica, a cura di Ettore Santi e Angelo Varni (edizioni Lavoro, 1982), segnaliamo: Franco Gheddo, L’esperienza della Fim Cisl alla Fiat e nella realtà torinese dagli anni ’50 al contratto 1963, riproposto dal medesimo editore in singolo libro col titolo La Cisl e la Fim a Torino; Paolo Feltrin e Angelo Miolli, Un sindacato operaio negli anni ’60. La Fim alla Zoppas di Conegliano Veneto (gli stessi autori pubblicano per l’editore Marsilio La scoperta dell’antagonismo. Gli anni ’60 alla Zoppas: operai, lotte, organizzazione).
Per Genova citiamo: Salvatore Vento, Portuali, siderurgici, marittimi e nuovo protagonismo, sulla rivista “Classe”, 19, 1981; più recente, promosso dalle Fim di Genova, ligure e nazionale, con prefazione di Gianni Italia, è il libro di Mirio Soso, Metalmeccanici a Genova. Esperienze dei siderurgici di Cornigliano 1954-1984 (De Ferrari Editore, 1997).
Spostandoci in Lombardia, sulla Fim bresciana, che è stata di importanza cruciale per lo sviluppo dell’organizzazione, citiamo: L’esperienza della Fim bresciana negli anni ’70 (senza autore, Edizioni Impegno Sindacale, 1978) e di Franco Gheza, Cattolici e sindacato. Un’esperienza di base (Ed. Coines, 1975).
Veniamo ad alcune figure emblematiche e alle testimonianze di singoli sindacalisti della Cisl.
A Pierre Carniti, e di riflesso alla Fim dei primi anni Settanta, è dedicato il libro del giornalista Claudio Torneo, Sindacalista d’assalto (SugarCo, 1976).
Non possiamo qui trascurare la figura di Cesare Delpiano, morto prematuramente “sul campo” nel 1983, la cui statura travalica i confini della Fim e della Cisl, ma la cui vicenda si intreccia fino alla fine con quella della Fim: a lui sono dedicati due libri delle Edizioni Lavoro scritti con passione e rigorosa documentazione da Mario Dellacqua (già operaio e poi cassintegrato Fiat, infine laureato in lettere): Cesare Delpiano. La formazione di un sindacalista popolare (1986, con postfazione di Franco Gheddo); Cesare Delpiano e la missione incompiuta. Dagli anni torinesi alla segreteria confederale della Cisl (1997, con prefazione di Raffaele Morese e introduzione di Giovanni Avonto e Franco Gheddo).
In Emilia la figura di Alberto Gavioli, nel peculiare “difficile” contesto della Regione Rossa per antonomasia, è protagonista di Sl’è nôta as farà dè (in dialetto modenese: se è notte, farà giorno), a cura di Ivo Camerini e Carmine Marmo (Edizioni Lavoro). Torniamo in Veneto, dove il compianto storico Federico Bozzini, su incarico della Fim veronese, scrive la storia di Gelmino Ottaviani, operaio, poi militante e infine dirigente della Fim: Cipolle e libertà (Edizioni Lavoro, 1993).

Opere generali

La Fim è citata naturalmente in opere a carattere più generale, nelle quali compare come protagonista di primo piano. Una storia del sindacato in Italia ancora in commercio è quella ormai classica di Sergio Turone, Storia del sindacato in Italia. Dal 1943 al crollo del comunismo (Edizioni Laterza, ultima edizione ampliata e aggiornata del 1992, ripubblicata nel 1995). La Fim è citata con positivo rilievo nel bel libro di Enzo Bartocci dedicato Alle origini della contrattazione articolata (1960-64) (Editrice Sindacale Italiana, 1979).
Un’accurata cronologia della storia sindacale italiana dal 1950 al 1980 è ricostruita a cura di Camillo Brezzi, Ivo Camerini e Toto Lombardo in Cisl 1950-1980 (anche questo volume è stato pubblicato nel 1980 in occasione del 30° della Cisl, presso le Edizioni Lavoro): ci sono un po’ tutte le date significative di quel periodo, e non poche riguardano la Fim.
Il modello organizzativo della Fim è preso in considerazione da Tiziano Treu in Sindacato e rappresentanze aziendali (Il Mulino, 1971). Infine, la Fim è ben presente in due opere ormai “storiche”: Guido Baglioni, Il sindacato dell’autonomia, De Donato 1977); Tiziano Treu e Umberto Romagnoli, I sindacati in Italia dal ’45 a oggi: storia di una strategia (Il Mulino, 1981).
Sullo scenario sindacale più recente, importante per comprendere anche l’evoluzione della Fim oggi, segnaliamo due importanti contributi di Massimo Mascini, giornalista del “Sole 24 Ore” e studioso di temi sindacali, il primo scritto insieme a Maurizio Ricci, giornalista di “Repubblica”: Il lungo autunno freddo. Radiografia delle nuove relazioni industriali, Franco Angeli 1998; Profitti e salari: venti anni di relazioni industriali. 1980-2000, Il Mulino 2000.

I media della Fim

Come ogni organizzazione, la Fim ha prodotto e produce molta carta stampata. Inoltre, con l’avvento delle nuove tecnologie, si avvale ora di nuovi strumenti. Per tutta la storia della Fim e anche oggi sono numerose le iniziative di comunicazione locali. Qui ci limitiamo agli strumenti promossi dalla struttura nazionale.
Già nel 1949 sotto la sigla Fillm, quindi prima che compaia il nome Fim, viene pubblicato nel 1949 il notiziario mensile Il ragguaglio. Nel 1950 nasce il mensile Il ragguaglio metallurgico, organo ufficiale della Fim Cisl.
Diretta da Pierre Carniti, compare nel febbraio del 1964 il bimestrale Dibattito sindacale: prodotto dalla Fim milanese, assume rilevanza nazionale come strumento di animazione culturale fortemente innovativo.
Con il procedere del processo unitario e la nascita della Flm, i vecchi strumenti vengono sostituiti da nuovi organi unitari: preceduto dal 1970 da Unità operaia, nasce nel 1973 I consigli, rivista mensile che godrà di grande prestigio ma chiuderà le pubblicazioni nel 1979 con la crisi dell’unità.
Nel 1982, avvertendo il bisogno di un proprio organo di comunicazione, la Fim comincia a stampare Lettera Fim. Nasce come agile strumento destinato ai delegati, e per una certa fase agli iscritti; da l 1990, con lo svilupparsi di strumenti locali, Lettera Fim si trasforma in un bimestrale di cultura sociale e sindacale.
Naturalmente la Fim è costantemente presente sulle pagine dell’organo confederale della Cisl Conquiste del lavoro (prima settimanale, poi quotidiano). Dal 1997 ogni mese (di norma il terzo giovedì) il quotidiano confederale riserva due pagine intere alla Fim, che le autogestisce con il proprio Dossier Fim.
E alla fine arriva internet. Giocano d’anticipo i giovani della Fim, che fin dal 1995 aprono il loro sito NGM (Network Giovani Metalmeccanici), attorno al quale si sviluppa un articolato sito della Federazione nazionale: www.fim-cisl.it Nel sito, oltre a diverse sezioni informative e di documentazione continuamente aggiornate, sono consultabili i contenuti di ogni numero di Lettera Fim.